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L’editoriale fantasma per celebrare la vittoria-lampo: la conferma della guerra ideologica di Putin

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La mattina del 26 febbraio, solo 48 ore dopo l’inizio della guerra contro l’Ucraina, alcuni media russi collegati al Cremlino (tra cui RIA Novosti e Sputnik) hanno pubblicato un articolo in cui si celebrava la vittoria lampo delle truppe russe. Il titolo non lasciava spazio all’interpretazione: “L’offensiva della Russia e del nuovo mondo”. Era una sorta di editoriale collettivo destinato probabilmente ad essere diffuso simultaneamente nel Paese dopo la capitolazione del governo di Kiev. Nelle ore successive il pezzo è stato rimosso ma è ancora possibile trovarlo online su alcuni siti. È un documento a suo modo straordinario per due ragioni: la prima è che dimostra la convinzione di Mosca di vincere facile su un avversario che avrebbe dovuto sciogliersi come neve al sole davanti all’avanzata russa; la seconda – su cui ci soffermeremo adesso – è che, pur non essendo una dichiarazione ufficiale proveniente dall’apparato di potere, conferma e ribadisce punto per punto l’ideologia nazionalista da Grande Russia che sottende l’operazione di reconquista dell’Ucraina.

Nell’articolo, a firma di Petr Akopov, si identificano come obiettivi dell’invasione la dissoluzione del governo di Kiev, il controllo del territorio ucraino, la fine della sovranità statuale del Paese e la soluzione della “questione ucraina“. La Nato è nominata una volta sola, a conferma del fatto che il pretesto dell’espansione – con cui realisti e putiniani d’Occidente spiegano e di fatto giustificano le azioni del Cremlino – rappresenta nella visione del regime un fattore collaterale. Era già risultato chiaro peraltro nel discorso in cui Putin riconosceva l’indipendenza delle repubbliche separatiste del Donbass, diventato in pochi giorni una pietra miliare del revanscismo revisionista russo. In quel proclama il dittatore dedicava alla Nato solo alcuni passaggi nella parte finale, riservando il resto della dissertazione alle ragioni storiche che, a suo dire, imponevano il ritorno dell’Ucraina alla Russia. Ma l’editoriale si incarica di chiarire questo punto in modo inequivocabile. “La questione della sicurezza nazionale – recita l’articolo – cioè la creazione di un avamposto dell’Occidente per metterci pressione è solo la seconda” delle “ragioni fondamentali” dell’intervento russo. “La prima è il complesso di un popolo diviso, dell’umiliazione nazionale, quando la casa russa perse prima parte della sua fondazione (Kiev), e poi fu costretta a fare i conti con l’esistenza di due stati, non uno, ma due popoli”: il riferimento è al crollo dell’Unione Sovietica di trent’anni fa, poche righe prima definito “la tragedia del 1991, questa terribile catastrofe della nostra storia”.

È toccato quindi a Vladimir Putin l’onore e l’onere di “restituire l’Ucraina, ovvero riportarla in seno alla Russia” e lui – come un condottiero – si è assunto “la responsabilità storica” di “non lasciare alle generazioni future la soluzione della questione ucraina”. Leggere bene, la soluzione (definitiva, s’intende) della questione ucraina. Grazie a questa missione, che Putin si è dato e ha portato a compimento (si tenga sempre presente che l’editoriale è stato scritto come se tutto fosse già successo), la Russia ha potuto ripristinare la sua unità e “la sua pienezza storica, riunendo il mondo russo, il popolo russo, nella sua interezza di Grandi Russi, Bielorussi e Piccoli Russi”.

Ancora convinti che sia una guerra per la Nato? Continuiamo a leggere, allora. “Qualcuno nelle vecchie capitali europee, a Parigi e Berlino, credeva seriamente che Mosca avrebbe rinunciato a Kiev?”, si chiede retoricamente l’autore prima di lanciare l’affondo sul processo di integrazione europea che sarebbe avvenuto solo grazie all’unificazione tedesca, interpretata come una gentile concessione di Mosca (“seppur poco intelligente”, aggiunge a mo’ di chiosa). Cercare di sottrarre l’Ucraina all’influenza russa è stato “l’apice dell’ingratitudine e della stupidità geopolitica”, così come non capire che “la Russia stava tornando”, come avvertì Putin nel discorso di Monaco del 2007. Ma “adesso questo problema è sparito: l’Ucraina è tornata in Russia”.

Il focus dell’editoriale si sposta poi sulle future relazioni con l’Occidente e sulle sanzioni economiche, evidentemente attese. Ritorna qui il giudizio sferzante e spudoratamente provocatorio sul comportamento occidentale, già espresso da Medvedev in sede di Consiglio di sicurezza: “Cercando di punirci, l’Occidente pensa che le relazioni bilaterali siano di vitale importanza per noi. Ma non è così da molto tempo”, accompagnato dalla stessa minaccia già reiterata da Putin in due occasioni – prima nella dichiarazione di guerra e poi con l’innalzamento del livello di allerta nucleare – “per l’Occidente un’intensificazione del confronto comporterebbe costi enormi, e i principali non sarebbero affatto economici”.

Il ragionamento prosegue facendo leva sulla divisione occidentale, un must nella retorica putiniana. Alla ricerca di autonomia europea (l’articolo è stato scritto prima della batteria di sanzioni decisa da Bruxelles) si contrappone l’esigenza degli “anglosassoni” di mantenere il continente europeo “sotto controllo”. Anche se adesso l’Occidente sembra unirsi in contrapposizione alla Russia (ma anche alla Cina), avverte l’editoriale, “il progetto europeo – fatto deragliare dagli anglosassonisemplicemente crollerà nel medio termine”. La conclusione è trionfale, come nelle intenzioni doveva esserlo la campagna d’Ucraina: “La Russia non solo ha sfidato l’Occidente, ha dimostrato che l’era del dominio globale occidentale può essere considerata completamente e definitivamente conclusa”. Potete riprendere fiato. È la stele di Rosetta delle intenzioni e degli obiettivi di Mosca.

Serve altro per delucidare la natura della minaccia? Putin ce l’ha spiegata chiaramente in diverse occasioni, a partire dal saggio del luglio scorso sulla “unità storica fra russi e ucraini”, un vero e proprio manuale di revisionismo prodromico all’azione. Ma non c’era nessuno in ascolto e, se c’era, ha preferito far finta di niente. Con le truppe di Mosca che accerchiano Kiev e i principali centri abitati del Paese, con l’intensificarsi dei bombardamenti e dell’offensiva bellica, le analisi geopolitiche della vigilia impegnate solo sui fattori oggettivi del comportamento degli attori internazionali sono crollate come castelli di carta. Le parole dei dittatori non sono quasi mai puri esercizi retorici, come spesso avviene invece nei contesti democratici, soprattutto quando hanno la pretesa di delineare una vera e propria dottrina. Normalmente le iniziative dei regimi autoritari sono coerenti con le premesse ideologiche che le anticipano, come la storia del XX secolo dovrebbe aver insegnato.

Il saggio di luglio, il proclama di riconoscimento delle repubbliche separatiste, l’annuncio dell’invasione e l’editoriale collettivo appena analizzato non sono semplici documenti di natura geopolitica (no, non è la Nato) ma una vera e propria dichiarazione di guerra al sistema liberale occidentale, di cui l’Ucraina rappresenta in questo momento il primo tragico campo di battaglia. Non un conflitto per la “sicurezza nazionale” o “a protezione” dell’etnia russa in Ucraina quindi, come recitava prima dell’attacco la propaganda putiniana, ma una guerra ideologica di conquista come poche altre se ne sono viste nella storia recente. “Non abbiamo bisogno di storia ma di leggende sacre”, ebbe a dire Vladimir Medinsky, ex ministro della cultura e oggi capo della delegazione inviata da Mosca a “negoziare” con Zelensky.

La situazione attuale è il risultato della progressiva sclerosi del sistema Putin, trasformatosi da forza potenzialmente modernizzatrice a progetto neo-imperiale, concetto entrato prepotentemente nel discorso pubblico dopo l’annessione della Crimea e adesso assurto a dogma di Stato. Un progetto probabilmente non condiviso dalle élites del Paese ma oggi totalmente in mano al suo padre-padrone, che regna incontrastato in mezzo ad un clima di omertà e di manipolazione costante. Una visione che promette di condannare il popolo russo all’isolamento e all’irrilevanza, in un contesto interno e internazionale in cui l’unica cosa che conta è la sopravvivenza del regime e di chi pretende di incarnarne il destino manifesto.