Finalmente Navalny ha potuto vedere il suo medico personale. Non è una concessione da poco nel rigido sistema carcerario russo. Sta male ma non è in fin di vita, come era filtrato in un primo tempo da ambienti dell’opposizione. In ogni caso ha dovuto interrompere lo sciopero della fame per evitare il peggio. Dal 28 febbraio passa le sue giornate nella colonia penale IK-2 nella città di Pokrov, a circa 100 chilometri da Mosca. Secondo gli avvocati le condizioni ambientali sono malsane e i suoi carcerieri lo privano sistematicamente del sonno. Mercoledì migliaia di persone hanno sfilato nuovamente nelle principali città russe per chiederne la scarcerazione: solito copione di volenterosi attivisti, persone comuni che fanno proprie le istanze anti-Putin e arresti sparsi a scopo intimidatorio.
La carriera politica di Navalny comincia nel partito liberale Yabloko, dove milita per sette anni, prima di essere espulso per aver aderito a una marcia di gruppi estremisti. Fonda allora un movimento di carattere nazionalista (Narod) basato su una piattaforma anti-immigrazione. Nonostante questa affiliazione controversa, Navalny si batte fin dall’inizio per una riforma del sistema giudiziario e delle istituzioni statali e da qui nasce l’iniziativa che lo consegnerà alla notorietà: la fondazione anti-corruzione che, soprattutto per le sue attività in rete, è da anni una spina nel fianco non solo di Putin ma anche dei tecnocrati che dal sistema di potere putiniano dipendono. Altri snodi essenziali della sua carriera: le manifestazioni di piazza in occasione delle elezioni della Duma nel 2011, i primi arresti, la candidatura a sindaco di Mosca, dove finisce alle spalle dell’attuale primo cittadino Sobyanin con un 27 per cento di voti, smentendo la leggenda del suo scarso seguito tra la gente comune e dimostrando che, almeno nei grandi centri urbani, il suo messaggio fa breccia. Lo sa anche il Cremlino, che comincia a dargli la caccia e già dal 2018 gli preclude qualsiasi possibilità di carriera politica decretandone l’interdizione dai pubblici uffici. Il resto è storia recente, gli attacchi fisici ripetuti, fino all’avvelenamento da Novichok dello scorso agosto con tutto quel che ne è seguito. Infine la condanna per appropriazione indebita che lo ha portato in prigione, sentenza che i suoi sostenitori denunciano come politicamente motivata.
Tralasciando il fronte filo-putiniano, schierato a priori con il Cremlino, i detrattori in buona fede di Navalny insistono molto sul suo passato (ma anche sul presente) nazionalista, ai limiti della xenofobia. Rilevano che le sue non sono credenziali liberaldemocratiche, che in fondo sarebbe un radicale e che potrebbe perfino rappresentare una versione esacerbata dei peggiori vizi della Russia attuale. In base a questo, sostengono, meglio non rischiare e tenersi il male conosciuto che aprire le porte ad un’alternativa che – nel caso prendesse corpo – per molti sarebbe un salto nel buio. Questa visione, che contiene certamente una parte di verità sul profilo ideologico di Navalny, presenta però tre grandi punti deboli: 1) è la classica scusa che utilizzano tutti i regimi autoritari per giustificare le proprie azioni e il perpetuarsi al potere: una versione contemporanea del “dopo di me il diluvio”; 2) è una teoria che impedisce qualsiasi dimostrazione della propria fondatezza: se non diamo spazio alle alternative non sapremo mai se le nostre paure e le nostre speranze saranno confermate o smentite, e quindi rendiamo il cambiamento oggettivamente impossibile; 3) anche ai tempi dell’Unione Sovietica, non tutta ma certamente una parte della dissidenza degli anni ’70 e ’80 aveva forti connotazioni nazionaliste e non per questo il senso della loro azione ne è risultato storicamente sminuito, anzi in molti casi il nazionalismo fu un fattore decisivo nel minare le fondamenta delle dittature del socialismo reale nell’Europa Orientale.
Quando trattiamo il caso Navalny in realtà stiamo parlando di prospettive molto diverse tra loro, a seconda del punto d’osservazione. C’è la prospettiva del Navalny attivista politico, una figura quasi tragica, nel senso classico del termine, un uomo che sembra aver deciso di immolarsi per la causa: lotta, viene arrestato, rischia di morire avvelenato, torna in patria sapendo che lo attende il carcere ma lo fa lo stesso. La persecuzione ingrandisce la sua figura rendendolo un martire dello stato di polizia. Poi c’è la prospettiva dei suoi compagni d’avventura, i membri della sua fondazione, gli attivisti che lo appoggiano: qui siamo di fronte a un gruppo che crede ciecamente nel suo leader e il cui principale problema è mantenere alta l’attenzione sulle vicende giudiziarie che lo coinvolgono e creare un impatto crescente nell’opinione pubblica in un contesto estremamente difficile. Sono persone che pagano sulla propria pelle il loro attivismo, rischiando in qualsiasi momento di essere inghiottite dal sistema e dal suo apparato repressivo, come dimostra la recente proposta di dichiarare la fondazione anti-corruzione come “organizzazione estremista”, alla stregua di una banda criminale, con tutte le ricadute del caso in termini penali.
In terzo luogo c’è la gente comune, quella che non si occupa di politica in modo diretto, che in genere tende a sostenere il potere costituito finché soddisfa le aspettative minime di benessere economico, a cui le lotte per i diritti civili interessano in maniera marginale e per la quale Navalny non è un punto di riferimento e in molti casi è perfino un elemento di disturbo. È la maggioranza silenziosa, quella che nei sondaggi assegna a Putin il 55 per cento di popolarità e al suo oppositore il 19 per cento. Però, e qui si gioca la partita, se messa di fronte a una scelta reale, cioè a un’elezione competitiva con regole trasparenti, potrebbe a un certo punto produrre una sorpresa in termini di consenso elettorale (si pensi alla tattica del voto intelligente nelle ultime elezioni regionali, votare per chiunque non sia il candidato di Putin, promossa con successo dallo stesso Navalny).
Infine, c’è la prospettiva del Cremlino e dei suoi apparati di sicurezza. Dopo aver fatto finta di ignorarlo per anni (non ne pronunciava nemmeno il nome), Putin alla fine ha dovuto ricorrere alle maniere forti per liberarsi di lui, e sembra che per il momento ci sia riuscito. D’altra parte l’accanimento dimostra che il sistema teme figure come Navalny, capaci di metterne in evidenza gli abusi e la corruzione che lo accompagna a tutti i livelli. Quel che più spaventa è che Navalny possa stappare e canalizzare un malcontento che cova all’interno della società russa ma che non ha trovato la maniera di manifestarsi pubblicamente. Navalny da solo può fare poco, ma se si sviluppasse un movimento simile a quello dei dissidenti in epoca sovietica, allora le cose potrebbero cambiare.
C’è poi un altro fattore da tenere in considerazione, ovvero la proiezione geopolitica della vicenda Navalny. È utile ricordare che per la Russia e per tutti i pundits pro-Putin che abbondano anche alle nostre latitudini, Navalny è un’arma dei servizi segreti americani per destabilizzare il Paese. Che certamente un caso come il suo si presti ad essere strumentalizzato in chiave di politica internazionale è evidente e quasi scontato, ma bisogna essere chiari nel distinguerne i risvolti inevitabili sul piano diplomatico dalle farneticazioni di un regime che sempre più spesso si rifugia nelle teorie della cospirazione per blindarsi all’interno. Anche perché – al di là delle prese di posizione ufficiali dell’Unione europea che ha espresso “preoccupazione” (la parola magica di Bruxelles) per le sue condizioni di salute e di Biden che ha definito la situazione “ingiusta e inappropriata” – non risulta che la persecuzione di Navalny abbia influito sulle relazioni economiche e diplomatiche in maniera significativa: il North Stream 2 è a un passo dall’essere completato e quando gli Stati Uniti hanno applicato sanzioni contro Mosca lo hanno fatto in risposta a presunte interferenze/cyberattacchi e non alla violazione dei diritti umani nel Paese.
Infine, vale la pena accennare alla ricaduta del caso Navalny sui conflitti aperti che vedono la Russia coinvolta, in particolare il caso ucraino con la ripresa delle ostilità nel Donbass. È noto che i sistemi autoritari, quando sentono la pressione interna, cercano di scaricarla all’esterno. I problemi politici ed economici della Russia attuale possono non essere la ragione principale della crisi in corso ma certamente sono elementi che nessuna analisi minimamente coerente può permettersi di sottovalutare.
Nonostante tutte le contraddizioni del personaggio, in questo momento Navalny è probabilmente l’unico soggetto politico in grado di rappresentare la nemesi di Putin, capace di aggregare nella società russa un’opposizione reale alle politiche del Cremlino (l’opposizione formale, in Parlamento, come si sa è solo di facciata). Dal carcere è tutto più difficile, evidentemente, e l’incognita sulle sue condizioni di salute pesa moltissimo sul futuro dell’attivismo democratico in Russia. Ma che interesse avrebbe Putin a far morire Navalny in diretta e al rallentatore? Personalmente non credo sia quello il suo obiettivo. Già ad agosto il Cremlino non oppose alcuna resistenza al suo trasferimento in Germania per le cure post-avvelenamento né reclamó mai ufficialmente la sua restituzione per far fronte ai procedimenti penali aperti sul suo conto. Lo stillicidio persecutorio potrebbe spingere qualche governo occidentale a chiedere che Navalny sia esiliato per motivi umanitari. Putin si libererebbe in un colpo solo di un oppositore scomodo e dimostrerebbe (dal suo punto di vista) che è un uomo legato a doppio filo all’Occidente. Il suo attivismo continuerebbe nelle capitali europee ma lontano dal cuore della politica russa. Machiavellico? Forse. Restate sintonizzati.