Il premier olandese Mark Rutte, durante le lunghe trattative in sede europea sul Recovery Fund, è diventato, volente o nolente, il portavoce di quel sentimento di sfiducia nei confronti dell’Italia che si aggira soprattutto nel Vecchio Continente, ma anche in altre latitudini. L’Italia vista come un Paese inaffidabile, che gestisce irresponsabilmente le proprie risorse, non è quasi mai di parola, non impara dai propri errori e non fa nulla per correggersi. Il pregiudizio anti-italiano, si sa, serve anzitutto come alibi per permettere alla Germania, spalleggiata dall’accondiscendente Francia e da chi, come l’olandese Rutte, sceglie, diciamo così, di fare il lavoro sporco al posto di Berlino, di mantenere un vantaggio a scapito dell’Europa meridionale, ossia ai danni di Paesi come Italia, Spagna e Grecia.
Tuttavia, pur avendo bene a mente tutte le storture di questa Ue, non possiamo non denunciare quelle responsabilità esclusivamente italiane che nel corso di tanti anni hanno contribuito a ledere il prestigio della nazione e a dare man forte a coloro i quali, a Bruxelles e dintorni, già perseguono il disegno di un’Italia a sovranità limitata. L’elusione delle riforme, l’instabilità politica, il leviatano pubblico che tassa e spreca, sono macigni sul destino del Paese, denunciati da sempre da pochi liberali e riformatori.
Amiamo farci del male da soli ed abbiamo dato ulteriore dimostrazione di questo alla conclusione dell’interminabile confronto europeo sul Recovery Fund. Ha fatto la sua apparizione il provincialismo di coloro i quali non vedono, o non vogliono vedere un’Europa diversa dall’attuale, e devono inoltre alimentare la sopravvivenza di questo governo, presentando il premier Giuseppe Conte come uno statista dalle grandi qualità. Abbiamo assistito così ad una esultanza quanto mai fuori luogo per l’esito delle trattative sul Recovery Fund. Innanzitutto, se un Paese è destinatario di maggiori risorse rispetto ad altri membri dell’Unione, significa che esso è fra i più bisognosi e malati d’Europa, quindi non vi sono molte ragioni per brindare. Poi, i motivi della festa dovrebbero scomparire del tutto se si pensa alla realtà, e non alla propaganda, ovvero al fatto che i soldi, materialmente, ancora non ci sono, (arriveranno, forse, nel 2021), ma in compenso già si litiga su un qualcosa che non c’è (l’assalto alla diligenza fantasma è avviato), mentre l’unica cosa che non si farà attendere, a differenza di prestiti e sussidi, è l’ipoteca europea sulla politica economica italiana dei prossimi anni.
Di fronte ad una classe dirigente come quella italiana, che gioisce senza avere nulla fra le mani e sembra felice di andare incontro ad un probabile commissariamento, è chiaro che Merkel, Rutte e altri non possano che farsi una grassa risata e continuare ad infischiarsene dell’esigenza di cambiamento che pervade tutto il continente.
Tuttavia, almeno in Italia, vi è anche qualche euroscettico che non promuove nel migliore dei modi l’interesse nazionale di questo Paese, sbagliando la mira delle critiche e i suoi obiettivi. Nei giorni in cui il premier Conte riceveva metaforici schiaffoni da Mark Rutte, non solo i giallo-rossi, ma anche, purtroppo, settori del centrodestra, soprattutto dalle parti di Fratelli d’Italia, si scagliavano contro il “paradiso fiscale” olandese. Innanzitutto, sarebbe opportuno evitare di etichettare come “paradiso” un Paese che semplicemente gode di un fisco ragionevole. Per fare del bene alla Cenerentola Italia, invece di preoccuparsi del presunto Eden dei Paesi Bassi, bisognerebbe concentrarsi su come porre fine all’inferno fiscale e burocratico della Stato italiano. Non serve né all’Italia e nemmeno al resto d’Europa, inquadrare l’Ue, come fa ad esempio Gianluigi Paragone, come promotrice di una presunta, molto presunta deriva liberista (magari lo fosse!). In buona sostanza occorrerebbe lasciar perdere quegli attacchi che rischiano soltanto di rilanciare la brutta fama di un Paese spendaccione e tendente al parassitismo, che fa tanto comodo a chi vive più a nord di noi. È così difficile rispolverare l’euroscetticismo liberale di Antonio Martino o quello conservatore di Margareth Thatcher?