Anche se ormai ci siamo abituati ad essa, la cosa che più colpisce, a seguire anche solo superficialmente i dibattiti politici, gli articoli degli opinionisti per non dire le esternazioni varie sui social network di coloro che si vantano (talora a torto) di influenzare il pensiero e i valori del prossimo, è pur sempre il diffondersi quasi incontrollato di quella che possiamo chiamare una cultura dell’eccesso nei giudizi, politici e più a monte morali, che produce a sua volta un modo di ragionare, e prima ancora un modo di porsi di fronte agli altri, che non conoscono il senso del limite. Una cultura che di conseguenza tende a contrapporre in maniera assoluta le proprie incontestabili ragioni agli indiscutibili torti altrui, di modo che quasi ogni discussione, quale che ne sia l’argomento, più che a un confronto dialettico assomiglia a una gara a zittire l’avversario.
In questo modo, proprio nell’epoca che predica il soggettivismo più spinto dei valori, degli atteggiamenti di vita e persino del proprio modo di essere, il dibattito sulle scelte che caratterizzano la convivenza civile sta diventando nel sentire comune (ahimè sempre più condizionato dalla superficialità della comunicazione mediatica, basata su brevi slogan usa e getta) ogni giorno più rigido e si avvicina ad una sorta di lotta “metafisica” tra Bene e Male, intesi come due mondi alternativi ed assoluti tra i quali il singolo, illuminato dai mass media e dagli “esperti”, è tenuto a partecipare, ovviamente militando (anche solo accettandone i dogmi senza discutere) dalla parte “corretta” della contesa senza compromessi, spesso nemmeno a livello di dialogo e di rispetto reciproco, con chi si “macchia” della colpa di pensarla diversamente.
Questo atteggiamento mentale si insinua persino nei paludati ambienti scientifici, e non solo nelle per loro natura più opinabili discipline umanistiche, ma anche nelle scienze naturali, dove il valore degli esperimenti e dei dati viene spesso interpretato e talora forzato verso conclusioni dirette ad assolutizzare una posizione a scapito di un’altra che viene “demonizzata” (l’esempio di molte tesi diffuse durante la pandemia è sotto gli occhi di tutti). Questa mentalità si insinua addirittura nel modo di ragionare e di esprimere le proprie idee tipico della vita privata: non è raro il caso di amicizie che si rompono in seguito a litigi su questo o quell’argomento relativo all’attualità politica e sociale, e in generale è sempre più diffusa la mentalità (che tocca tanto gli studiosi professionali che le persone comuni) secondo cui il fatto che un altro la pensi diversamente da noi equivale quasi ad un insulto personale. Qualcuno potrebbe dire che tutto ciò è tipico di un mondo che vuole essere sempre più esatto e che cerca di ridurre a zero il suo margine di errore anche nei giudizi morali e civili, un mondo frutto del progresso sociale che va di pari passo con quello tecnologico.
La concezione per cui la realtà umana, sociale e politica si può suddividere in maniera netta tra bene assoluto e male assoluto non è però il frutto dell’era digitale e nemmeno della globalizzazione: non per nulla essa viene chiamata “manicheismo”, dal nome di uno suoi sostenitori più famosi, il profeta persiano Mani (216 – 277), uno dei grandi leader religiosi della storia dell’umanità. Mani predicava una religione che univa in sé elementi cristiani (egli stesso si proclamava apostolo di Gesù Cristo) e tradizioni iraniche legate in maniera più o meno diretta allo zoroastrismo e alla sua netta distinzione tra due divinità in sostanza eguali e opposte tra loro, appunto quella del Bene e quella del Male, che governano il mondo e la società. Il manicheismo si diffuse soprattutto nella zona di mondo intermedia tra l’impero romano e quello cinese, fortemente legata alla cultura dell’impero persiano, ma anche a quella del cristianesimo gnostico orientale, in parte diverso da quello “ortodosso” mediterraneo. Nell’Occidente latino esso prese piede un secolo dopo la morte del suo fondatore in un periodo nel quale il mondo classico si avviava verso la fine, e in quell’epoca di crisi (che molti paragonano a quella attuale) fece molti proseliti, forse proprio per il fatto che offriva dei criteri “semplici” in base ai quali interpretare e venire a patti sia con la cultura delle popolazioni barbariche, che prima pacificamente e poi con la forza si stavano insediando nei territori romani, sia con i mutamenti sociali che stavano affossando un impero sempre più incapace di gestire la vita civile e l’attività economica su larga scala.
Alla lunga però il manicheismo non attecchì in Occidente, e il suo venir meno non fu tanto il risultato delle persecuzioni (sempre ovviamente deprecabili) cui furono soggetti i suoi esponenti, ma fu soprattutto il frutto di una scelta culturale. Le élites e le popolazioni sia romane che barbariche, prima in conflitto poi in simbiosi tra loro, preferirono scegliere la via concreta dell’esperienza come guida alle scelte morali e civili: rifiutarono quindi l’etica dell’assoluto bene e dell’assoluto male (in forza della comune fede cristiana “classica” nel Dio unico, fonte del bene) e fecero propria l’etica del limite.
Spesso i grandi geni nella loro vita sono lo specchio di un’epoca: uno dei più convinti aderenti all’etica assoluta manichea fu il giovane e brillante retore africano Aurelio Agostino (354 – 430), il quale usò a lungo le sue straordinarie doti per sostenere la distinzione e la contrapposizione senza compromessi tra bene e male, fino che gradualmente (molto più gradualmente di quanto dice nelle “Confessioni”) il futuro vescovo di Ippona e santo, nell’aderire al cristianesimo latino giunse ad una conclusione che ancora oggi suona “spiazzante” per molti, cioè che il male assoluto di per sé non esiste, ma è solo una forma di bene “deviato”, e deviato proprio in quanto reso assoluto, perché nessuna realtà umana a detta di Agostino è tale né in negativo né in positivo, ma va valutata nella sua natura di per sé limitata: assoluto ovviamente è solo Dio. La mitologia cristiana (ed a monte ebraica) esprimeva un concetto simile quando affermava che Lucifero, il Principe delle tenebre, non era altri che l’angelo più buono del Paradiso, che aveva preteso di rendere assoluta la sua bontà, peccando in tal modo di superbia.
Anche molti sinceri ammiratori di Sant’Agostino sono un poco freddi di fronte a queste tesi, e pur con la venerazione che si deve avere davanti a figure come la sua, quasi sommessamente dubitano che su questo tema il grande pensatore sia partito per la tangente. Come si può dire oggi – si chiedono – che il male di per sé non esiste dopo che ci sono stati i campi di sterminio nazisti e i gulag sovietici? Eppure proprio la storia tragica del Novecento per molti versi dà ragione alle tesi di Agostino, e l’affermazione che l’eccesso di bene, l’assolutizzazione del bene porta al male dovrebbe servire di monito a noi che troppo spesso, e troppo a cuor leggero, in nome di principi astrattamente nobilissimi contrapponiamo in maniera “manichea” buoni e cattivi.
Un altro grande, non un filosofo-teologo ma uno scrittore, uno dei protagonisti della letteratura dello scorso secolo, il russo Aleksàndr Solženicyn (1918 – 2008), che subì sulla sua persona la violenza legalizzata del regime sovietico espresse questa idea in uno dei passi più profondi di “Arcipelago Gulag”, affermando che “Per fare del male l’uomo deve prima sentirlo come bene o come una legittima, assennata azione. … Occorre una teoria sociale che permetta di giustificarci di fronte a noi stessi e agli altri, di ascoltare, non rimproveri, non maledizioni, ma lodi e omaggi”. Ed in effetti di fronte agli orrori dei totalitarismi, una cosa che sconcerta, quasi altrettanto agghiacciante dei crimini commessi, è il fatto che la maggioranza di coloro che li commisero erano convinti di compiere il bene, o almeno di compiere il loro dovere, in nome della fratellanza comunitaria in Germania, in nome della giustizia sociale internazionale in Russia.
Viviamo per fortuna in tempi meno tragici rispetto alle generazioni che ci hanno preceduto, ma il rischio di perdere la consapevolezza del limite nella valutazione delle cose umane e di cadere preda della versione attuale del manicheismo, in nome ovviamente dei più nobili ideali è molto forte, soprattutto nelle giovani generazioni, sempre meno educate a riflettere sul passato e troppo spesso legate alla convinzione che qualche visita guidata o peggio qualche ricostruzione virtuale bastino a trarre insegnamenti dalla storia, soprattutto da quella recente. Certo il dibattito politico e sociale deve essere vivace e anche aspro, non fatto di complimenti, come ogni competizione vera, ma non può arrivare sino al punto di “demonizzare” l’avversario cercando di silenziarne le idee e quasi di “eliminarne” (per fortuna solo in senso mediatico) la figura.
Il manicheismo di oggi è forte perché offre al pubblico soluzioni “facili” e in tal modo dispensa dalla fatica, dai dubbi e dagli inevitabili errori propri di ogni ragionamento e di ogni decisione che debbano fare i conti con una realtà spesso complessa e in rapido mutamento quale è quella della nostra epoca. Ci sono però buone speranze che anche questa forma di manicheismo non attecchisca nei Paesi occidentali, soprattutto ora che inizia faticosamente a riemergere (dopo i decenni dell’appiattimento globalista) la coscienza delle specificità culturali e dei valori fondamentali propri della nostra civiltà. Un ruolo importante lo possono giocare gli opinionisti, gli studiosi, tutti coloro che come si dice con un’espressione pomposa “fanno cultura”. Sarebbe importante creare, al di là delle opinioni dei singoli, un modo di ragionare basato non su contrapposizioni ed eccessi di tipo manicheo, ma su valutazioni (anche aspre, anche polemiche) legate al concetto di limite come fondamentale guida per distinguere empiricamente le cose da approvare e quelle da respingere o da combattere.
Così ci si dovrebbe chiedere se la tolleranza religiosa si deve spingere sino a rispettare le prevaricazioni personali (ad esempio sulle donne), o quella della vita individuale sino a cancellare le differenze di genere, se l’accoglienza deve comportare anche l’apertura incontrollata ai clandestini, se l’ambientalismo deve includere l’adesione alla tesi del riscaldamento globale, se la tutela sanitaria deve richiede necessariamente provvedimenti a tappeto come i lockdown, ecc. Ciò aprirebbe uno spazio di dibattito dal quale sarebbe escluso (non ovviamente con qualche “scomunica”, ma per la sua stessa estraneità ad esso) solamente proprio il manicheo di turno, che rifiutasse di “sporcarsi le mani” prendendosi la responsabilità di sbagliare (perché solo i buonisti non sbagliano mai) nei suoi giudizi positivi o negativi. Uno spazio di dibattito che non potrebbe che essere il frutto di un modo di affrontare la realtà nei suoi vari aspetti (da quelli politico – economici a quelli sanitari) in maniera non dogmatica ma empirica, un modo di ragionare di cui oggi c’è estremamente bisogno e che costituisce da sempre uno dei principi fondamentali fatti propri da chi si professa liberale.