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L’epoca del “pensavelox”: polizia del pensiero e del linguaggio per una società senza meriti

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Cominciamo da qui, ossia da un fatto banale occorsomi poco tempo fa. Appena messo piede in un negozio di abbigliamento, una graziosa commessa dall’aspetto trendy mi guarda ed esordisce con un: “Ciao, cosa posso fare per te?”. Inevitabile la mia risposta: “Tanto per cominciare dalle cose semplici, potrebbe darmi del lei”. Eppure vi assicuro che dimostro quell’età che mi permetterebbe d’essere addirittura il nonno della commessa e che il negozio in questione ha insegna e vetrine pretenziose. Si usa così, mi dicono, tanto per mettere a proprio agio i clienti. Ma se io, putacaso, fossi più a mio agio dando e ricevendo del “lei” con persone delle quali nemmeno conosco il nome, che si fa? E se fosse persino una mia sommessa aspettativa vivere in un mondo in cui normalmente (ma oggi si dice di default) si dà del “lei” a chi abbia visibilmente almeno 40 anni in più?

Parrebbe che in questi nostri tempi pieni di tiktokers, di influencer di varia estrazione (ma perlopiù tutti appartenenti al giro del noioso comunismo da salotto) in un’epoca di social come prima e più autorevole fonte di cultura, funzioni proprio così. Se ci mettiamo pure lo smart working e la Dad il quadro si fa surreale. Ci stanno raccontando che i ragazzi che vanno a scuola non entrandovi nemmeno e partecipando alle lezioni in mutande (perché, intanto, la telecamerina inquadra solo dal busto in su e comunque la si può spegnere a piacimento) non saranno culturalmente e socialmente penalizzati rispetto agli alunni della scuola tradizionale. Ci dicono altresì che il lavoro fatto da casa collegati da remoto ma con la tv accesa addirittura renda di più rispetto a quello svolto in ufficio.

Sarà pure, anche se avrei qualche dubbio in merito, ma il punto è un altro. Ho la precisa sensazione che l’andazzo generale sia caratterizzato da una crescente tendenza ad adattarsi alle necessità del momento con eccessiva indulgenza sui capisaldi del vivere civile, che sono sempre meno capi e men che mai saldi. Va bene, dai, aggiungiamo una bella mestolata di populismo e diciamo che sia salutare aver perso l’abitudine di chiamare dottore un dottore, professore chi lo sia, commendatore chi sia stato nominato tale. Spingiamoci magari all’estremo e diciamo che esserci liberati del bieco e classista biglietto da visita a favore di un anodino QR code sia una conquista sociale (ma qui devo dire che per quanto possa spingermi avrei una gran voglia di rilasciarmi e tornare indietro) ma poi basta. Stop. Scendiamo almeno alla fermata della ragione, giacché a quella della decenza eravamo distratti dalle cuffiette air-pad e l’abbiamo saltata.

Mi piace fare l’esempio, diciamo, ferrotranviario perché trovo molte analogie con quanto stiamo vivendo oggi. Se è vero che il tram non possa seguire il percorso che ciascuno dei suoi utenti gradirebbe e che siano i passeggeri a doversi adeguare alla linea del tram, è altrettanto vero che le fermate ci sono e che nessuno possa dire ai poveri utenti mascherinati “tu scendi qui, mentre tu scendi là”. Scendere dal mezzo pubblico, magari quando si allontani dalla nostra meta prefissata è proprio il minimo ancora concessoci e quindi facciamolo. Altrettanto si dovrebbe dire del supremo diritto dei consociati a pensarla come preferiscano, ma sappiamo che non è così, anzi accade proprio il contrario. Troppi dei nostri decisori amano collocarci nelle categorie da loro inventate e rese obbligatorie, applicando etichette di conformità del pensiero, disponendo chi deve viaggiare nel carro merci e chi nel carro bestiame. Troppo lusso viaggiare nelle carrozze passeggeri, perché in quelle alle quali siamo ammessi la destinazione è prefissata e le fermate non sono opzionali: si scende dove vogliono portarci loro.

Essendo dunque tanto premurosi i nostri governanti da risparmiarci la fatica di pensare, accade però che, per fare un esempio, si diventi d’ufficio dei razzisti per aver scritto “negro” invece di “nero”, “disabile” invece di “diversamente abile” e così via. Pare irrilevante che chi ci vieta l’utilizzo di un termine non offensivo e usato per secoli abbia capito bene il significato del termine “razzismo” e sorge persino il dubbio che potrebbe essere per lui un boomerang, ma tant’è, di cosa potrebbero occuparsi di più importante?

Diciamo anche che, alla fine, si fa presto a scorrere il prontuario delle parole vietate per stabilire chi sia una persona perbene e chi un delinquente abituale. Semplice ed efficace: ci si porta avanti col lavoro, iscrivendo alla colonna dei bravi italiani oppure in quella dei nemici della nazione chi proferisca certe parole. Ma, mentre gli ottusi burocrati senza pensiero trionfano in ogni settore della cosa pubblica, si fa a pezzi la ragione, il buonsenso, il dovere di essere chiari per permettere alla gente di comportarsi bene senza subire un trattamento tipicamente riservato ai bovini. Come i ridicoli autovelox installati unicamente per fare cassa in strade che non presentano pericoli reali, ogni giorno ci appioppano un nuovo “pensavelox”.

Guai a pensarla fuori dei limiti impostici. Nemmeno ci si rende più conto di quanto sia odiosa la polizia del pensiero perché troppe volte in un solo giorno dobbiamo fermarci a riflettere (e parlo delle persone normali e non di terroristi) perché dicendo o scrivendo una singola parola potremmo avere guai penali senza avere la minima intenzione di nuocere a chicchessia. Facile trovare così i nemici da combattere (a spese pubbliche, ovviamente): altrettanto facile finanziare (rigorosamente sempre con soldini di tutti) simposi, concioni, conferenze, commissioni e financo tribunali speciali per scovare e punire chi utilizzi una parola invece di un’altra ed altre amenità che formano, accrescono, sostengono e rendono ereditabile politicamente un baraccone di moralizzatori senza morale, di poliziotti del pensiero senza pulizia che farebbero meglio a dotare i poliziotti veri delle dotazioni perché possano fare il loro dovere.

È un baraccone elefantiaco e costosissimo, per quanto sbilenco, sul quale si sale per co-optazione e mai per merito. Parola d’ordine dei custodi del baraccone? Appiattiamo tutto verso il basso, così non ci dicono che facciamo favori ai potenti. Vogliono adesso persino togliere valore di legge alle lauree, non paghi di averne inventate moltissime che fanno ridere solo nel nome. Mettiamo assieme chi si è fatto un mazzo enorme per studiare e formarsi con chi indossa la sciarpina multicolore giusta come unico merito, accomuniamo studiosi e ricercatori con i tiktokers e le Sardine ed incarichiamo strapagati burocrati teorici di regolamentare nei particolari il lavoro di autonomi e professionisti, continuando nella ormai gloriosa tradizione italica del minestrone totale. Oltre ai titoli di studio, aboliamo pure la buona educazione e il dovuto rispetto per chi sia qualcuno.

Perché, piaccia o meno ai nostri vigili del pensiero, al mondo c’è sempre stato ed ancora ci sarà chi è diventato qualcuno e chi continuerà a non contare un accidente perché non sa un accidente. La regola classica del merito era semplice: consisteva nella sommatoria di intelligenza, sacrificio, studio, applicazione, ambizione, capacità. La fortuna contava in percentuali del tutto residuali e non di rado “le amicizie giuste” favorivano persone comunque capaci. Quanto di male ci fosse, poi, nel chiamare professore un professore, reverendo un sacerdote, eccellenza un prefetto e così via… non sanno spiegarcelo i moralizzatori di oggi. “Faceva brutto” e sapeva di fascismo con immanente colpo di stato annesso, eh? Probabile.

Ora che un bimbo delle elementari (pardon… della scuola primaria) è autorizzato ad appellarsi alla propria maestra chiamandola per nome e dandole del “tu” e che altrettanto possa fare un ragazzino della scuola media (ops … della scuola secondaria di primo grado) nei confronti dei professori abbiamo evidentemente fatto un enorme passo in avanti per rendere la società più giusta e democratica. Sapete cosa vi dico? Facciamo ridere. O forse peggio ancora…

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la grande bugia verde