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L’esercito europeo resta un’allucinazione e Draghi resta l'”americano”

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Torniamo sul tema del mitico esercito europeo. Stefano Magni, su Atlantico, ha ricordato come si tratti di un tema tradizionale, che serve a separare l’Europa dagli alleati anglo-sassoni e si ripresenta ad ogni crisi internazionale.

Infatti, sfogliando i quotidiani italiani dopo la caduta di Kabul, lo abbiamo ritrovato in bocca a tutti quei commentatori che descrivono un disastro americano, distinguendosi quelli che vi vedono un tornante storico (Bernard Guetta, Brunetta, Gentiloni), quelli che la Nato non ha più senso (Quartapelle, Romano), quelli che gli Usa forse non difenderebbero più l’Europa (Venturini, Fabbrini, Panebianco, Buccini, Mauro) o il suo vicinato (Tocci), quelli che danno in pericolo Ucraina e Taiwan (Quirico), quelli che “gli italiani non volevano andare via” (Di Feo).

Al contrario, chi alla Nato è affezionato sostiene che è colpa di Trump (Bonino, Buccini, Mieli, Cerasa, Teodori, Ferrara, Raineri, Molinari), ovvero colpa pure degli europei (Caracciolo, Massolo, Dassù), oppure una trappola tesa a Mosca e Pechino (Kupchan, Nicastro), eventualmente per metterle una contro l’altra (Kaplan), oppure un fatto senza conseguenze per Ucraina e Taiwan (Jean, Mastrolilli).

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La discussione ha coinvolto governi e Commissione europea. Il ministro Amendola: “un esercito comune europeo non è più rinviabile”. Perché? Per avere “autonomia strategica”. Per farci cosa? Per abbandonare “una visione esclusivamente difensiva in politica estera” ed usare questo esercito “a contare fuori dai propri confini, a sostegno di un’azione diplomatica e di sicurezza”: ad esempio (secondo lui), l’Italia non si sarebbe ritirata dall’Afghanistan in quel modo “precipitoso e senza condizioni”.

Il generale Camporini: “uno strumento militare che ci consenta di non dipendere più dagli americani”, “una capacità militare autonoma”. Perché? In Afghanistan (secondo lui) “di fronte a un’Unione europea coesa e capace, determinata”, gli americani non si sarebbero ritirati. Per farci cosa? “Intervenire, se necessario, nelle aree di nostro interesse: Mediterraneo, Africa e Medio Oriente”.

Il generale Graziano: “un comando centrale … fondi efficaci, strutture operative coordinate”. Perché? In Afghanistan i diversi corpi di spedizione perseguivano ciascuno un obiettivo diverso e nessuno era abbastanza grande per interloquire con gli americani. Per farci cosa? I corridoi umanitari andrebbero tenuti aperti usando “anche la deterrenza militare” e pure senza gli americani: ad esempio, oggi, un battlegroup di 5000 soldati “in una situazione come quella dell’aeroporto di Kabul potrebbe fare la differenza”. Il che pare a noi l’esempio più sbagliato possibile: cosa ci farebbero 5000 fanti a Kabul, senza protezione aerea, rinforzi e linee di rifornimento e pure senza intelligence (visto che il generale riconosce di aver sbagliato circa la tenuta dell’esercito afghano)? Dien Bien Phu non gli è bastata?

Ben oltre si è spinto l’Alto Commissario Ue Borrell, parlando al Corriere: “autonomia strategica, dovremmo essere in grado di muoverci anche da soli”. Perché? “gli Stati Uniti non sono più disposti a combattere le guerre degli altri”. Per farci cosa? Difendere l’aeroporto di Kabul, vabbè ma, soprattutto, “saremo sempre più vicini all’America che alla Cina, ma questo non significa che dobbiamo essere sempre e sistematicamente allineati con gli Stati Uniti, perché abbiamo interessi differenti in alcune aree”. Osservazione, quest’ultima, ardita al tempo della seconda guerra fredda (Ferguson) e, non casualmente omessa in un parallelo intervento di Borrell sul New York Times.

Su tutti spicca Romano Prodi. Egli descrive “una comune difesa europea” dotata de “i due grandi strumenti che possono permettere la costruzione di una politica di difesa comune, e cioè il diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e il possesso dell’armamento nucleare”; entrambe francesi, tant’è che, alla Francia “si dovranno naturalmente riconoscere ruoli e garanzie particolari”. Cioè il comando. Coerentemente, Prodi incolpa di tutto quanto avvenuto in Afghanistan i soli americani, attacca duramente il segretario generale della Nato Stoltenberg e vuol tenere lontani i britannici.

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Orbene, tutti devono avere un Piano B, per l’improbabile caso che gli Usa decidano veramente di disimpegnarsi dal mondo. La Gran Bretagna pare lo chiami Canzuk (Canada, Australia, Nuova Zelanda, Uk) e fa già ridere così. Allo stesso modo, la Francia vorrebbe fare della Ue il proprio Canzuk. Ovvero di un suo sottoinsieme, visto che la Ue pare inservibile: un esercito europeo sarebbe controllato dal Consiglio europeo dei ministri della Difesa, che delibererebbe all’unanimità; il quale Consiglio, mercoledì, non ha trovato un accordo sul coordinamento delle operazioni di intelligence … figurarsi sulla politica di difesa. Conseguentemente ai francesi, per potersi servire della Ue, servirebbe prima una modifica dei trattati, alla quale molti Stati membri non consentirebbero mai.

Ciò per la ragione già indicata da Magni su Atlantico: gli Stati membri della Ue non hanno uguali interessi strategici. I danesi non si batterebbero volentieri per il Mediterraneo, noi non ci batteremmo volentieri per il Baltico e nessuno Stato vuol essere portato in guerra controvoglia. Tanto più se in una guerra non difensiva, come le missioni descritte da Borrell e Prodi. Concetto elementare ma evidentemente non presente a Mattarella, il quale sabato ha sostenuto: “l’Europa non può permettersi di essere assente da scenari ed eventi le cui conseguenze si ribaltano sui Paesi che la compongono”.

Per giunta, gli americani a disimpegnarsi non ci pensano proprio: basta leggere Stoltenberg. A Mattarella, che in una allocuzione tenuta a Ventotene il 29 agosto ha sostenuto: “in un mondo che è sempre più organizzato dal protagonismo di grandi soggetti internazionali, [che] quello che è più vicino agli Stati Uniti … abbia una maggiore capacità operativa è interesse anche degli Stati Uniti” … gli americani risponderebbero che è vero precisamente il contrario. L’interesse primario degli Stati Uniti è che gli Stati europei non si organizzino in un grande soggetto concorrente. Spiega Diego Fabbri, di Limes, che “gli americani non vogliono, in alcuna maniera, un esercito europeo” e che, se veramente lo si vuole fare, prima “bisogna fare la guerra, letteralmente, agli americani”.

Ciò non significa che gli Usa non desiderino che gli alleati europei (le risorse amiche) riarmino, o che si impiccino militarmente degli affari degli Stati che formano il loro vicinato (a parte Iran ed altri ingaggi di interesse nazionale vitale americano), anzi. Ma a condizione che detti alleati europei agiscano in quanto Stati nazionali sotto coordinamento Nato, cioè americano. Non del comando centrale Ue sognato dal generale Graziano. Al proposito, Carlo Pelanda ha richiamato una famosa apertura di Condoleezza Rice, del 2000, le successive chiusure di Obama e (secondo lui) di Trump, ed aggiunto i propri consigli. Venerdì, il segretario alla Difesa americana Lloyd Austin ha chiosato la visita del ministro Guerini così: “siamo grati al contributo che l’Italia sta dando alla pace e alla sicurezza” in Africa e in Medio Oriente, “l’Italia è uno dei nostri alleati più stretti”. Più chiaro di così …

Sabato, Berlusconi ha giudicato tale posizione americana “un paradosso”, in quanto l’unica via sarebbe “l’Europa protagonista della politica mondiale”. Ed ha spiegato di giudicarla tale “nello spirito del recente appello del capo dello Stato, che condivido in toto”. Domenica, Salvini si è detto “assolutamente d’accordo”. Il riferimento di entrambe è alla citata allocuzione di Mattarella, fondata sulla seguente convinzione: “i Paesi dell’Ue si dividono in due categorie: i Paesi piccoli e quelli che non hanno ancora compreso di essere piccoli”. A tutte e tre, gli americani risponderebbero che l’Italia è piccola solo se governata da gente piccola, come loro tre.

Esempio: venerdì Salvini si è fatto ricevere calorosamente dall’ambasciatore cinese per poi, domenica, lasciarsi andare a parole scomposte (“la fuga vergognosa, ingloriosa degli alleati americani”), sulla traccia di quelle già pronunciate da Berlusconi (“errori delle ultime amministrazioni americane”). Ad entrambe, gli americani ricorderebbero che a ritirarsi sono state pure le truppe italiane, su decisione del loro governo (il governo al quale loro due votano la fiducia e nel quale siedono le loro delegazioni ministeriali).

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Di tutto ciò pare essere cosciente Draghi il quale, giovedì, ha detto di non credere al ritiro generalizzato degli Usa (“assolutamente non ci credo”), ha usato parole molto vaghe circa la politica europea di difesa, ha evitato, persino, di rispondere ad una domanda specifica.

L’episodio è rivelatore e va raccontato. Hannah Roberts, giornalista di Poltico.eu, chiede a Draghi se “è a favore del cosiddetto Combat Force di 5000 persone in Afghanistan”. Manifestamente, il riferimento è al battlegroup di 5000 soldati del generale Graziano e di Borrell, che abbiamo visto; il quale però, nelle loro intenzioni, prima deve essere formato e poi inviato in situazioni simili all’Afghanistan. Draghi preferisce afferrare l’appiglio “in Afghanistan” e rispondere unicamente sull’Afghanistan parlando di profughi. La giornalista pare insistere, ma il team Draghi spegne il microfono e lo lascia spento sino a dopo l’inizio della domanda del suo collega successivo. Il successivo articolo della Roberts non fa alcun cenno: né al battlegroup, né all’Afghanistan. Draghi ha evitato di rispondere. Alla maniera della Corea del Nord.

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Tutto ciò, potrebbe aiutarci a soppesare con giudizio certi entusiasmati proclami che giungono da Parigi. Ad esempio Giles Keppel: “se Mosca decidesse di sfidare i Baltici, l’America risponderebbe? La caduta di Kabul ha terremotato la geopolitica e le conseguenze gravano sulla Nato: chi protegge l’Europa? … protetti solo sotto l’ombrello americano, quando l’ombrello si chiude siamo morti”. Oppure Bernard Guetta, il quale scrive che “non esiste più un ombrello” militare americano, dunque “l’unico vero esercito rimasto nell’Unione europea è quello francese”, ma non basta a difenderci dalla minaccia militare “russa, cinese e perfino turca”, sicché solo “una Difesa di nome e di fatto” europea potrebbe difenderci, “nel caso in cui Putin marciasse su Kiev o annettesse l’Ucraina orientale”.

Sono queste le cose che si sono detti Macron e Draghi a Marsiglia, a cena giovedì? Sono queste le cose che troveremo scritte nel fantomatico Trattato del Quirinale (oggetto misterioso ma che verrà firmato, ora si dice, “entro fine anno”)? Probabilmente no.

In realtà, le ambizioni francesi sono molto più contenute: una intesa cordiale nella stabilizzazione del comune vicinato e la autonomia tecnologica, cioè lo sviluppo dei sistemi d’arma. Quest’ultima è cosa ben diversa dalla autonomia strategica di Amendola e Borrell e gli americani non avrebbero obiezioni maggiori.

Parigi fatica con Berlino, ove il riarmo è combattuto dalla Spd esplicitamente e dalla Cdu implicitamente: basti pensare al triste destino dei progetti franco-tedeschi imbastiti negli anni di Macron. Realmente, la Germania immagina sé stessa come una Grande Svizzera e questo suo desiderio è stato recentemente benedetto da Washington con l’accordo sul gasdotto NorthStream2. Quest’ultimo funzionale ad una politica di appeasement con Mosca, che passi per la finlandizzazione dell’Ucraina, volta ad allontanare la Russia dalla Cina.

Parigi fatica un po’ meno con Roma, che pure partecipa a parecchi sistemi d’arma anglo-sassoni. Infatti, la debolezza di entrambe, Francia e Italia, le sta avvicinando su parecchi dossier di politica estera: l’Afghanistan ovviamente, la Libia, ma pure la politica Ue e Bce. Chissà mai che la comprensione cordiale diventi un’intesa estesa alla stabilizzazione del comune vicinato ed allo sviluppo di una parte dei sistemi d’arma. A condizione che avvenga con equilibrio reciproco ed al fine di riarmare in quanto Stati nazionali e sotto coordinamento Nato, come vuole Pelanda, ciò non sarebbe un male. Soprattutto, se davvero i due Paesi sono interessati ad intendersi, non si vede perché dovrebbero aspettare il consenso dell’Austria, dell’Estonia o di Berlino: la Ue è solo d’intralcio.