Come prevedibile, i quotidiani hanno dato ampio risalto alla manifestazione di sabato a Milano e, sull’onda lunga del suo presunto successo – valutato in 200mila presenze dagli organizzatori e in 250mila dai royalistes di Repubblica – alle primarie del Pd che hanno portato Nicola Zingaretti alla leadership del partito. Titoloni, editoriali, commenti monocorde e unanimismo sul “ritrovato popolo del Pd” oscurano analisi più approfondite e impediscono di identificare gli errori commessi dal centrosinistra in questi anni, in un copione che sembra ripetersi tutte le volte allo stesso modo ma con protagonisti diversi.
Innanzitutto, le primarie. Sempre meglio delle cliccarie e delle plebiscitarie, ma comunque finte. Non ci sono mai state primarie veramente aperte nel Pd. Prova ne è che il risultato di esse è sempre stato previsto con facilità prima del voto, e sempre con un margine così ampio da lasciare alla mozione – o alle mozioni – di minoranza solo le briciole. Un 51 a 49 non c’è mai stato. Più che di democrazia – o sfida aperta sul modello che ha portato Trump alla candidatura per le presidenziali Usa nel Partito Repubblicano nel 2016, o lo stesso Sanders a un passo dalla nomination democratica nello stesso anno – un semblant di democrazia.
La sinistra sembra preferire la via già esperita con insuccesso in precedenza ogni volta che si è ritrovata a raccogliere i cocci dopo una batosta elettorale. Va all’opposizione, ritrova l’unità e il “suo popolo” – un magma che va dall’Anpi ai cespuglietti di sinistra radicale, passando per la sinistra riformista e le associazioni cattoliche e ambientaliste – si coalizza contro un presunto nemico che incarna il “Male Assoluto”, fa quadrato e recupera consensi. Questa è la fase A. Nella fase B presenta l’ammucchiata come una plausibile ipotesi di governo con volti e posizioni tali da suscitare l’accettazione dell’elettorato moderato e degli incerti. Infine, considerando che mai in Italia chi governa ha vinto le elezioni, vince la contesa e sale al potere senza riuscire però a governare. Il presidente del Consiglio o leader del partito viene subito messo alla berlina come aspirante dittatore, social-traître della classe operaia o dei più deboli, e, naturalmente, come un falso “uomo di sinistra” ma, anzi, uno “di destra”. Questo è stato, fin qui, il percorso della sinistra nella Seconda Repubblica da Occhetto a Prodi, passando per D’Alema, Veltroni e Renzi. La perenne riedizione dell’Ulivo, dell’Unione, del tutti contro Berlusconi o Salvini, ha ottenuto – quando le ha ottenute – risicate vittorie elettorali, cui han fatto seguito governi rissosi e poco incisivi, seppure composti da personalità validissime.
Nessun cittadino al di fuori degli iscritti del Pd sa dire la differenza tra la mozione di Zingaretti e quelle di Martina e Giachetti, e su quali basi il partito ha mandato avanti lui come segretario. Se i tempi in cui stiamo vivendo sono straordinari – e per certi versi lo sono davvero, sia in Italia, sia nello scacchiere politico internazionale – servirebbe una risposta davvero innovativa e straordinaria per riaccendere l’entusiasmo di chi non si riconosce nel governo giallo-verde. La riedizione dell’Ulivo e la discesa in piazza delle minoranze della minoranza non sembrano andare in questo senso. Comunque, auguri a Zingaretti: non è roba di tutti i giorni trovarsi di fronte a una salita dopo essere arrivati in cima a una montagna.