Mario Draghi, alle Camere, ha pronunciato un discorso interessante. Esso conferma l’impostazione di politica economica che descrivevamo dopo l’incarico, ma suggerisce le cose siano un poco più mature di quanto immaginavamo dopo le consultazioni.
Ciò che a Draghi non interessa – Cominciamo da ciò che meno gli importa. Il turismo di montagna, che egli stesso ha ucciso tenendolo in lockdown: parole vuote (“conosciamo le loro ragioni, siamo consci del loro enorme sacrificio e li ringraziamo”), seguite da promesse vuote (“ci impegniamo a fare di tutto perché possano tornare, nel più breve tempo possibile, nel riconoscimento dei loro diritti, alla normalità delle loro occupazioni”), condite da una pacca sulla spalla anche vagamente irridente (“è sicuro che riparte, perché siamo l’Italia”, in replica alla Camera). Le imprese, che “dovranno cambiare, anche radicalmente” e per le quali egli intende “sostenere il processo di internazionalizzazione” e “potenziare il credito d’imposta per le spese di consulenze relative alla quotazione” (cioè, delle imprese più piccole e/o rivolte alla domanda interna, chissenefrega). “I nostri giovani”, costretti ad emigrare a causa … della mancanza di “effettiva parità di genere”. Il pianeta Terra, omaggiato di una citazione di Papa Francesco che più gretina non si può. Passiamo oltre.
La dichiarazione di intenti – Lo spessore del discorso cresce, lì dove Draghi affronta argomenti dei quali realmente gli importa. Riassunti (come già a Rimini) in un abstract:
“[1] Questo governo nasce nel solco dell’appartenenza del nostro Paese, come socio fondatore, all’Unione europea, e come protagonista dell’Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori. [2] Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, [3] significa condividere la prospettiva di un’Unione europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione”.
Prima la Nato [1]. Aggiungerà: “seguiamo con preoccupazione” ciò che accade “intorno alla Cina”; desideriamo sì, “alimentare” un dialogo con la Russia, ma segnalando che lì “i diritti dei cittadini sono spesso violati”; mentre dei diritti dei cittadini turchi pare non ci importi visto che, con Ankara, desideriamo “si avvii un dialogo” in quanto “partner e alleato Nato”. Quanto al principale alleato europeo nella Nato, la Gran Bretagna, Draghi non la cita nel discorso ma farà poi sapere di star guardando, sui vaccini, al “modello inglese”. Insomma, con gli Usa “i nostri rapporti e la nostra collaborazione non potranno che intensificarsi”. Nulla quaestio.
Poi il quadro Ue [3]: “la prospettiva di un’Unione europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione”; una apparente professione di fede federalista, ma, poi (e previa precisazione di Bagnai), alla Corte dei Conti specificherà che un bilancio europeo comune “potrà avvenire un giorno” … nel duemilaecredici. Stessa contraddizione nel passaggio in cui Draghi indica la prospettiva di un “nuovo Patto per le migrazioni e l’asilo”, nonché di “una politica europea dei rimpatri”; ma, poi, nella replica al Senato specificherà che “permane la contrapposizione con gli Stati del nord ed est Europa”. Non è un caso che egli concluda il discorso con la descrizione di “una spinta crescente alla costruzione, in Europa, di reti di rapporti bilaterali e plurilaterali privilegiati”, la quale ci suggerisce di attrezzarci di conseguenza pure noi: di volta in volta con Francia e Germania, Spagna, Grecia, Malta, Cipro. Lo ripetiamo: ‘bilaterali e plurilaterali privilegiati’, cioè non multilaterali attraverso la mitica Federazione. Ad impossibilia nemo tenetur.
Fra i due passaggi, Draghi parla di Euro [2]: “sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro”. Cosa significa? Qual è l’Euro che avremmo “irreversibilmente” scelto? Taluno dice si tratti di una interpolazione (Draghi avrebbe avuto una ragione polemica immediata per inserire dette parole). Ma noi preferiamo pensare che così non sia: che sia un passaggio centrale, la cui spiegazione vada cercata più oltre nel testo.
Politiche monetarie e fiscali espansive – Infatti, è lì che Draghi dice di desiderare “politiche monetarie e fiscali espansive”: affermazione sconvolgente e cuore dell’intero discorso. Cominciamo dalle ‘politiche fiscali’. Draghi loda il Recovery Fund, ma pure specifica che “la quota di prestiti aggiuntivi che richiederemo, dovrà essere modulata in base agli obiettivi di finanza pubblica”; il che significa ridurre il fondo all’insignificanza macroeconomica: a simbolo totemico, tuttalpiù. Significativa la lista, indicata da Draghi, delle riform€ prodromiche alla concessione dei fondi del Recovery Fund: tutte molto lente a realizzarsi. Per le tasse, fa l’esempio di una Commissione di studio insediata nel 1962 e che partorì la legge nel 1971, nove anni dopo; per la scuola, desidera “rivedere il disegno del percorso scolastico”; per la pubblica amministrazione in generale, vuole “investimenti in connettività e aggiornamento continuo”; per il sistema sanitario, propone “un confronto a tutto campo” addirittura. Per la giustizia, vuole “aumentare l’efficienza”, aggiungendo poi alla Camera “una durata ragionevole” ed alla Corte dei Conti che il controllo deve essere “rapido” … cose che richiederebbero la riscrittura dei Codici. Su “trasparenza e semplificazione”, si spinge sino alla manifesta assurdità di difendere la “valutazione ex ante ed ex post delle politiche sul capitale naturale”, i Prefetti, le Soprintendenze, l’Anac. Palesemente, non è un ‘Fate Presto!’. E Draghi lo dice pure: “conta la qualità delle decisioni, conta il coraggio delle visioni, non contano i giorni, il tempo del potere può essere sprecato anche nella sola preoccupazione di conservarlo”, serve una “una visione a tutto campo che richiede tempo e competenza”. Campa cavallo.
Farà presto, invece, su due specifiche riform€: “la certezza delle norme e dei piani di investimento pubblico”, che va benissimo; eppoi “la concorrenza”, da leggersi come un nuovo colpo alla nuca dell’industria turistica nazionale, come già hanno avvertito Fubini (“senza una messa a gara delle concessioni balneari, noi del Recovery non vediamo un euro, niente bonifici”), Barbera (“l’Europa non si capacita di quel che è concesso di pagare in Italia a gestori di spiagge, impianti sciistici o termali”) e la Lega (Salvini, che ha la golden share della maggioranza, argomenta contro il lockdown che uccide il turismo e non nomina la concorrenza). Lo stesso Draghi considera sì, le due riform€ come uno scalpo da portare a Bruxelles, a servire da accompagnamento al compitino detto Recovery Plan, ma dubitiamo egli possa credere che esse basteranno ad olandesi e tedeschi. Insomma, Draghi sembra attribuire scarso peso al Recovery Fund.
Se ciò è vero, allora cosa resta delle nominate “politiche monetarie e fiscali espansive”? Beh, resta la parte monetaria. Draghi lo ha ripetuto alla Corte dei Conti:
“Ai livelli attuali, non sono i tassi di interesse che determinano la sostenibilità del debito pubblico ma è il tasso di crescita di un Paese … lo Stato si trova a poter fare investimenti significativi con il solo vincolo che siano fatti bene: cioè, che aumentino la crescita del Paese e, quindi, contribuiscono anche alla sostenibilità del nostro debito pubblico”.
Insomma, L’Euro che avremmo “irreversibilmente” scelto, è un Euro fatto di “politiche monetarie e fiscali espansive” dettate dai governi. Ma i Trattati tutto ciò vietano. E non una penna che si sia alzata a sottolineare come tutto ciò faccia a pugni con la sacerrima ‘indipendenza di Bce’; certo, si potrebbe rispondere che quella di Draghi non è una disposizione ma una semplice previsione, eppure essa suona perentoria, diremmo dispositiva: non ammette obiezioni. Dunque, l’Euro del quale parla Draghi non è l’Euro dei Trattati, anzi è contrario ai Trattati. Dunque, Draghi vuole ignorare i Trattati o addirittura cambiarli. E se i tedeschi ci dicono di no?
Il non detto di Draghi – Sin qui il detto di Draghi. Poi c’è il non detto, cui ha sopperito il dibattito parlamentare. Prima Bagnai, al Senato, lo invita ad opporsi alla reintroduzione del Patto di Stabilità, per la ottima ragione che, se pure Draghi ottenesse da Bce la monetizzazione, lo stesso Roma non potrebbe giovarsene se fosse contemporaneamente costretta alla austerità; poi, gli richiama lo stato dei conti esteri italiani “eccezionalmente favorevole, che la solleverà, così, dal doloroso compito di gestire gli squilibri esterni distruggendo domanda interna”; infine, gli rammenta la decisione olandese di posporre ogni decisione sul Recovery Fund a dopo le loro elezioni e la formazione del nuovo governo, cioè alle calende greche. Di seguito Borghi, alla Camera, lo richiama a smettere di perdere tempo col Recovery Fund, in coerenza con la proclamata insistenza sulla politica monetaria espansiva; poi lo invita a non chiedere al Parlamento la ratifica del Nuovo Trattato Mes di Conte e Gualtieri. Tutte cose che Draghi non ha detto, ma che avrebbe potuto dire.
Infatti, tali integrazioni introdotte da Bagnai e Borghi, le troviamo pure nell’intervista di un interprete autorizzato di Draghi, Cottarelli, concessa a Fabio Dragoni. Dopo uno splendido “ora serve fare più deficit”, egli definisce la reintroduzione del Patto di Stabilità “irrealistica”; afferma che “dobbiamo evitare una politica monetaria restrittiva” ed esclude che l’inflazione dell’Eurozona superi “stabilmente il 2 per cento”; infine definisce il Mes “certo non indispensabile”, difende debolmente il Recovery Fund e non nega il ritardo olandese. Persino Boeri e Perotti (ben commentati da Liturri) dicono il Recovery Fund velleitario, mentre Zingales lo definisce “microscopico”. Solo Fubini si attarda ad inquietarsi per i suoi ritardi. Insomma, l’Euro contrario ai Trattati che avremmo “irreversibilmente” scelto, piace in Italia e piace assai.
La risposta di Bruxelles – Peccato non piaccia affatto a Bruxelles. Come mostra la dura replica a Draghi, affidata al commissario Gentiloni, il quale avvisa: “nelle prossime settimane decideremo se e come prolungare il congelamento del Patto, mentre nei prossimi mesi avvieremo una riflessione cruciale su come ricalibrarlo”, laddove ci piace notare come il fatto di fissarne la reintroduzione prima di aver deciso se e come cambiarlo, accresce la forza negoziale del Nord Europa. Il commissario continua avvertendo che, su quel tavolo della riforma del Patto di Stabilità, la personale autorevolezza di Draghi non basta, se non accompagnata da una politica “più concentrata sulle riforme strutturali e meno disattenta alla dinamica del debito, all’instabilità finanziaria, allo spreco di denaro pubblico”, da “politiche di rientro graduale dal debito”. Egli nega il ritardo olandese. Poi, ricorda che gli acquisti da parte di Bce sono “straordinari” e “in prospettiva” destinati a finire e ciò per la buona ragione che tornerà l’inflazione (“usciremo dai lockdown, l’onda della domanda compressa in questi lunghi mesi tornerà a crescere e diventerà impetuosa, riportando migliaia di miliardi di risparmi finora congelati dentro l’economia reale”). Infine, in un crescendo wagneriano, tira fuori il Mes che non è escluso “torni in ballo”. Insomma, l’intervento di Gentiloni è mirato a dire il contrario di ciò che Draghi ha detto in Parlamento, a fargli il controcanto.
Il duro messaggio di Bruxelles è stato recapitato pure attraverso il Financial Times: nella Ue, “siano riemersi i fantasmi della crisi passata, i governi non stanno spendendo abbastanza per sostenere la ripresa”, manca “copertura politica per ulteriori stimoli nazionali in tutta la zona euro”, Bruxelles si è già dimostrata generosa con il Recovery Fund e Roma non chieda di più. I tedeschi ci stanno dicendo di no.
Escalation – Nel giro di Draghi sono pronti gli argomenti di replica. A presentarli è Lucrezia Reichlin (che su Atlantico già conoscevamo quale eurofanatica), con un articolo uscito domenica: “negli Stati Uniti sono stati approvati quasi 2 trilioni di dollari di stimolo fiscale … è inevitabile che si finirà per produrre uno squilibrio globale che vedrà un surplus commerciale europeo a fronte di un deficit Usa … questo innescherà tensioni tra Europa e Stati Uniti”. Non è a noi – sta dicendo la Reichlin ai tedeschi – non è a noi che state dicendo Nein, ma agli Usa ed al vostro commercio; quindi, è per il vostro interesse che – citiamo – “il supporto straordinario all’economia dovrà continuare. Le risorse del Recovery Plan non possono bastare. Gli Stati nazionali dovranno continuare a fare la parte del leone … Questo suggerisce di evitare la reintroduzione di regole fiscali troppo presto; implica un’azione coordinata della Bce con i governi per far sì che Paesi indebitati come il nostro non siano costretti a ritirare lo stimolo anzitempo; impone di convincere la Germania a non ritornare al pareggio di bilancio in tempi ravvicinati”.
Certo – continua la Reichlin – si tratta di “una discussione complessa” di “un percorso difficile”, “non è chiaro se i tempi siano maturi per una riforma nel breve periodo”, “gli arretramenti e i conflitti non vanno sottovalutati” … e ci mancherebbe altro, trattandosi nientemeno che di ignorare o cambiare i Trattati. Ma, lo stesso, se i tedeschi continueranno a dirci di no … ebbene allora si dovrà “andare oltre l’asfittico dibattito Europa sì, Europa no” ed “entrare nel merito delle opzioni”. Cioè, delle opzioni che ci resterebbero … quando i tedeschi ci avranno detto l’ultimo Nein.
Due opzioni – Tali opzioni non sono tante, ma due. La prima, che Draghi faccia come Monti; ma è inattuabile causa ottimo stato dei conti esteri italiani e conseguente conflitto con gli Usa e, infatti, Draghi vuole il contrario, come abbiamo visto. Dunque, resta solo la seconda opzione: che i tedeschi (& satelliti nordici) se ne vadano per la propria strada, facendosi un loro €nord rivalutato e lasciandoci finalmente tornare a vivere, con un nostro €sud o direttamente con la Lira. A ciò, crediamo, si riferiva il deputato Borghi, quando alla Camera invitava Draghi a cogliere “l’onore e la possibilità di riscattarci” da “una servitù che per secoli è stata inflitta alle nostre genti e che fu riscattata dal sangue dei nostri avi”. Occasione che oggi c’è, indubbiamente. Draghi, se pure così la vedesse, non lo direbbe. Ma qualcosa ha detto: ha citato Cavour. Di quest’ultimo Draghi aveva già parlato una volta, nel 2017, dedicandogli un discorsetto: “a Cavour fu sempre chiaro che il rapporto con l’Europa sarebbe stato fertile, se il Paese avesse appreso a progredire e a crescere anche da solo. Altrimenti, la sua stessa indipendenza sarebbe stata compromessa”. Ecco.
Cavour che ci ha liberato dai ‘tedeschi’, certo. Ma pure Cavour l’alleato dei francesi e qualcosa si muove, da quelle parti: Alain Minc giura che, con Draghi, “dal punto di vista della Francia tutto è perfetto, penso che l’intesa con Macron sarà totale”; al contempo l’ufficiale di collegamento fra Salvini e la Le Pen (l’ottimo Vincenzo Sofo) ha abbandonato la Lega. Ma non è chiaro cosa ci abbiano capito, a Parigi, in tutta questa storia: lo stesso Minc blatera ancora di Recovery Fund e vede Salvini “amare l’Europa e l’euro”. Nel frattempo, però, giungono evidenze sempre più terrificanti (ultima Eurostat) dell’abisso in cui è precipitato il commercio estero francese: evidenze che sappiamo venire minuziosamente compulsate a Berlino. Ciò, nel quarto anno del regno di Macrone e nella pre-vigilia delle elezioni presidenziali dell’aprile 2022: potenzialmente capaci di aprire le porte dell’Eliseo ad un presidente non simpatetico con il IV Reich. Chissà mai che il nuovo cancelliere a Berlino, quello che verrà dopo le elezioni generali tedesche del settembre 2021, faccia uno più uno. E pronunci l’ultimo Nein.