L’Europa declina, è sempre più divisa sulle scelte strategiche, ma va tutto bene: Verhofstadt c’è

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Specchietti per le allodole. Del dibattito di martedì al Parlamento europeo sul futuro dell’Europa, che vedeva come interlocutore di turno il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte (assente per non meglio specificati “impegni” il presidente della Commissione Ue Juncker) non resta alcuna traccia, alcuna riflessione degna di nota, sui mainstream media, se non le polemiche sui livorosi insulti del capogruppo dell’Alde Guy Verhofstadt per spostare il focus della discussione sulla situazione politica interna italiana. Che poi, è bene ricordarlo, il Verhofstadt che definisce “burattino” il premier Conte, che accusa il governo italiano di agire su ordine di Putin e che si scaglia contro i populisti, è lo stesso che solo un paio di anni fa aveva raggiunto (ripeto: raggiunto, siglato) un accordo con il Movimento 5 Stelle perché entrasse nel gruppo Alde, dando così forza alla sua candidatura alla presidenza del Parlamento europeo. Non che avesse molte chance di venire eletto, ma come azione di disturbo per far saltare le candidature dei due italiani, Tajani e Pittella, e guadagnarci qualche presidenza di commissione. Ecco chi è Verhofstadt: un amante dell’Italia, di quella che si scansa…

Dunque, mentre l’attenzione è tutta sull’ultima polemica di questi inutili dibattiti, che replicano su scala europea le miserie politiche nazionali, ci sfugge il quadro generale, su cui invece cerchiamo di concentrarci qui su Atlantico.

Eppure, in questi giorni, sono ben tre i fatti che dovrebbero essere al centro delle nostre preoccupazioni di italiani ed europei. Il declino economico e geopolitico dell’Europa; la visita del segretario di Stato Usa Pompeo nei Paesi di Visegrad e la conferenza di Varsavia sull’Iran, che marcano la distanza tra Stati Uniti e Ue franco-tedesca; l’offensiva del generale Haftar nel sud della Libia.

“Incredible Shrinking Europe”, è il titolo dell’ultima column sul Wall Street Journal del politologo Walter Russell Mead, che mette in fila una serie di dati che ci riguardano. Se l’allarme di Deutsche Bank su una possibile recessione in Germania e il taglio delle previsioni di crescita dell’Eurozona per il 2019, da un già “anemico” 1,9 per cento all’1,3, possono apparire come segnali di una crisi congiunturale, una più inquietante tendenza strutturale emerge se allunghiamo lo sguardo. Il prodotto dell’Eurozona nel 2017 è stato inferiore del 2 per cento rispetto a quello del 2009, mentre secondo i dati della Banca mondiale, nello stesso periodo la Cina è cresciuta del 139 per cento, l’India del 96 per cento e gli Stati Uniti (da cui è originata la crisi del 2008) sono cresciuti del 34 per cento.

“Sta diventando sempre più evidente – secondo WRM – che il grande progetto sta fallendo” e l’influenza globale del Vecchio Continente sta svanendo. “Un’espansione accidentata ed eccessivamente ambiziosa ha indebolito anziché rafforzare l’Ue. L’euro è stato un fallimento economico e politico, mentre l’unità diplomatica resta un sogno lontano”.

Da una parte l’economia ristagna, aumenta il gap con i tassi di crescita degli altri continenti, e tra gli stessi stati membri. Il risultato, probabilmente inevitabile, di una programmazione economica di stampo socialista. Dall’altra, l’Europa è sempre più divisa anche politicamente. L’imminente uscita del Regno Unito e l’onda lunga delle lacerazioni dei negoziati; i Paesi dell’Europa centro-orientale come Ungheria e Polonia sempre più distanti da quelli dell’Europa occidentale; quelli del Sud Europa che ancora covano rancore per i postumi della crisi economica; i partiti politici anti-europeisti e nazionalisti che continuano a guadagnare consensi. A tutto questo si aggiunge, o forse ne è la premessa, un declino demografico associato all’urbanizzazione e al benessere.

L’Ue, ricorda il politologo, “fu fondata per fermare il declino dell’Europa, non per rispecchiarlo”, ma in queste settimane “fresh evidence” stanno dimostrando che “il cambiamento più significativo degli ultimi cento anni continua: il declino geopolitico dell’Europa”. Dopo la Guerra Fredda, attraverso il processo di integrazione Ue, “l’Europa ha cercato di trasformarsi in una potenza globale capace di rapportarsi alla pari con Stati Uniti e Cina”. Ma non ce la sta facendo.

Tutte le grandi o medie potenze vicine – Russia, Turchia, Israele e Stati arabi – sfidano quando vogliono le ambizioni Ue, spiega WRM. “L’influenza europea a Washington, già in declino durante gli anni di Obama, è al punto più basso con Trump. Né Mosca né Washington hanno avuto riguardo degli interessi europei nel sospendere il Trattato INF, che limita lo schieramento di missili in Europa. La Cina prende più seriamente Giappone e India che l’Ue, e né gli Stati Uniti né la Cina sono particolarmente preoccupati di cosa pensino gli europei mentre negoziano intese commerciali che possono ridefinire il sistema commerciale mondiale. Una sola iniziativa europea ha funzionato: il mercato unico. L’Europa resta formidabile come blocco di consumo e la capacità Ue di dettare le condizioni alle quali compagnie straniere come Google e Gazprom operano all’interno del suo ricco mercato è la carta più importante nelle sue mani”.

Francia e Germania restano “fermamente impegnate nel progetto europeo”, ma con il Regno Unito che se ne va, Italia e Polonia “ammutinate” e l’Ungheria “ribelle”, “le prospettive si stanno offuscando”. Per arrestare il declino dell’Europa, Parigi e Berlino dovrebbero elaborare un programma per “rilanciare la crescita, difendere i confini, rispettare i sentimenti nazionalisti”, ma tale scenario sembra “improbabile”. Qualcuno in America si rallegra per il declino europeo, ma è “un errore”, conclude WRM. “Un’Europa forte, anche se a volte litigiosa e discordante, è meglio per gli Stati Uniti di un’Europa debole che non può né difendere i suoi vicini né contribuire alla stabilità globale. Ma gli Stati Uniti devono avere a che fare con l’Europa che abbiamo, e l’Europa che abbiamo non sta bene”.

A marcare le distanze tra Stati Uniti e Ue franco-tedesca anche la conferenza di Varsavia sulla pace e la sicurezza in Medio Oriente, e su come contenere il regime iraniano, iniziata ieri sera. Per l’amministrazione Trump presenti il segretario di Stato Mike Pompeo, il vicepresidente Pence e il consigliere Jared Kushner. Presenti i ministri degli esteri di decine di Paesi europei e mediorientali, tra cui il britannico Hunt e il nostro Moavero. Chi spicca, invece, per la sua assenza? I ministri di Germania e Francia (ci saranno figure di secondo piano) e, ovviamente, anche l’Alto rappresentante Mogherini, tra le principali “risorse” degli ayatollah nel cuore delle istituzioni Ue. In questo caso, sembrano Berlino e Parigi più vicine alle posizioni di Russia e Turchia, che hanno disertato la conferenza.

Ma il segretario Pompeo è in Europa da lunedì per un giro di visite nell’Europa di Visegrad – Ungheria, Slovacchia e Polonia – e il messaggio recapitato in quelle capitali risuona forte e chiaro anche più a occidente, dove però non sembra trovare orecchie disposte ad ascoltare. Washington è determinata a rinsaldare l’alleanza transatlantica, è pronta a incrementare il proprio “impegno diplomatico, militare, commerciale e culturale in Europa centrale e orientale per rafforzare i legami di questa regione con l’Occidente, mentre affronta una crescente pressione dalla Russia e dalla Cina”. Ma chiede agli alleati europei di riconoscere i rischi derivanti dall’avanzata di queste potenze autoritarie, che certo offrono molte opportunità (investimenti, infrastrutture, commercio, energia), a fronte però di una sempre maggiore influenza, prima economica poi politica e strategica. Gli investimenti portano con sé interferenze di ogni genere, in diversi ambiti. Quella di Mosca e Pechino è una politica di potenza volta a indebolire e a dividere l’Occidente attraendo nella propria orbita la sua periferia orientale, ma anche il cuore stesso dell’Europa: Berlino.

Russia e Cina, ha avvertito Pompeo durante la conferenza stampa congiunta con il ministro degli esteri ungherese Szijjarto, “sono potenze autoritarie che non condividono la nostra comune aspirazione alla libertà”. E gli ungheresi in particolare sanno bene che “una Russia autoritaria non sarà mai amica della libertà e della sovranità di nazioni più piccole”. Non solo Russia. Anche la Cina sta cercando di conquistare “una testa di ponte” in Europa. Gli sforzi di Pechino per “creare dipendenza” e “manipolare” i nostri sistemi politici costituiscono una minaccia “reale” e “intenzionale” che, se non arginata e contrastata, rischia di “minare la sovranità”, come si sono accorte anche le democrazie asiatiche e del Pacifico.

Negli anni di Obama, Washington ha pensato di spostare la sua attenzione, distraendo energie politiche e risorse, dal Vecchio Continente all’Asia, ma questo ha permesso a Mosca e Pechino di accrescere la propria influenza in Europa. Un errore che l’amministrazione Trump, ha assicurato Pompeo, non intende ripetere e al quale, anzi, intende porre rimedio.

Questi concetti, ripetuti da Pompeo anche in Slovacchia e Polonia, hanno implicazioni concrete in diversi dossier chiave, primi fra tutti energia (Nord Stream 2 e Turkstream) e telecomunicazioni (Huawei e ZTE).

Anche dopo il passaggio della settimana scorsa, il compromesso tra Parigi e Berlino che ha salvato il Nord Stream 2 da un tentativo di fermarlo dall’interno dell’Ue, Pompeo ha richiamato l’Europa a boicottare un progetto che aumentando la sua dipendenza energetica dal gas russo è funzionale al disegno di Mosca di esercitare una crescente influenza sul Vecchio Continente e danneggiare i Paesi, come l’Ucraina, che rifiutano di tornare nella sua orbita, e assicurato, quindi, che gli Stati Uniti “continueranno a lavorare con la Polonia e altri alleati e partner europei per bloccare il gasdotto”. Così come il segretario di Stato Usa ha cercato di dissuadere i partner europei dall’affidare ai colossi cinesi Huawei e ZTE lo sviluppo e la gestione di una infrastruttura sensibile, per il flusso di dati e informazioni che vi passerà, come il 5G. Soprattutto a Budapest, essendo l’Ungheria, come l’Italia, intenzionata a dare il suo via libera, Pompeo ha detto che “stiamo condividendo” con gli alleati “ciò che sappiamo circa i rischi della presenza di Huawei nelle loro reti – rischi concreti per i loro popoli”, legati ai dati personali dei cittadini e alla sicurezza nazionale e dell’Alleanza.

Come più volte abbiamo sottolineato su Atlantico, l’America di Trump sta chiedendo agli alleati europei il rinnovo di una scelta di campo strategica, che ovviamente porta con sé coerenti comportamenti economici e politici. Ma l’Europa sta rispondendo in ordine sparso.

Altre notizie che dovrebbero occupare stabilmente il centro del nostro dibattito politico sono quelle che provengono questa settimana dalla Libia. L’offensiva lanciata nel sud del Paese dal generale Khalifa Haftar, che avrebbe conquistato il capoluogo regionale, Sebha, nonché il principale sito petrolifero libico, Sharara, ha tutta l’aria di essere un game changer, sia dal punto di vista militare che del processo politico, che può indebolire in misura forse decisiva il governo di Tripoli di al Serraj, su cui troppo a lungo hanno puntato i governi italiani. Come si sta muovendo la Francia, che dall’inizio in questo caos ha nel mirino i nostri interessi? E come stiamo reagendo alle novità sul campo? Decisamente le giurie di Sanremo, le giacche di Salvini, le miserie di Verhofstadt non sembrano priorità.

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