Con un misto di curiosità e spocchia, l’osservatore mediamente istruito europeo guarda le notizie dagli Stati Uniti sulle proteste contro il lockdown. E si prepara a redigere un temino di morale pubblica sulla superiorità degli europei sugli yankees, specialmente questi libertari e conservatori che votano Donald Trump. Eppure, gli americani ci stanno dando una grande lezione. Abbiamo ancora una volta molto da imparare da quel che avviene nelle piazze (prima ancora che nelle sedi istituzionali) delle città del Nuovo Mondo.
Le manifestazioni sono incominciate la settimana scorsa, che per gli americani era la terza o quarta (a seconda degli Stati) di lockdown. Non tutti i governatori hanno ordinato ai loro cittadini di stare a casa, nel sistema federalista c’è ancora spazio per sperimentare soluzioni differenti e sei Stati non hanno mai implementato misure simili a quelle dell’Italia: Iowa, Nord e Sud Dakota, Oklahoma, Arkansas e Nebraska. Negli altri 44, le misure restrittive possono anche essere dure, come in Michigan, dove il governatore Gretchen Whitmer ha ordinato la chiusura di tutti i luoghi pubblici non essenziali e ai cittadini ha imposto di restare a casa. Trump ha definito “molto dure” quelle restrizioni alla libertà (meno dure che in Italia, in realtà), ma non può interferire nella politica degli Stati, che sono autonomi nelle decisioni che riguardano la salute dei loro cittadini.
La protesta ha preso quota proprio dal Michigan, dopo quasi un mese di lockdown. La causa principale è la perdita di posti di lavoro e il rischio di una crisi economica travolgente. Gli americani che hanno fatto domanda di disoccupazione sono 22 milioni, dall’inizio dell’epidemia. In fatto di produzione, gli imprenditori di tutti gli Stati rischiano di bruciare in un mese quel che hanno conquistato in 4 anni di crescita. Ora che le notizie sulla situazione del contagio iniziano a migliorare, non solo gli imprenditori, ma anche chi ha perso il lavoro o rischia di perderlo, chi ha paura di una miseria prossima ventura, scende in piazza senza timore. Il Michigan, appunto, è lo Stato che ha aperto la strada, con la prima marcia a Lansing, di fronte alla sede del Parlamento locale. Altre manifestazioni si sono tenute sabato ad Austin (Texas), Annapolis (Maryland), in città minori dello Stato di New York. Domenica è stata la volta della maggior ondata di proteste in Arizona, Colorado, Montana e Washington (Stato). A Olympia, capitale dello Stato di Washington, una marcia di 2.500 persone è stata la più grande dall’inizio della protesta contro il lockdown. A Denver, Colorado, ai manifestanti che chiedevano la riapertura si sono contrapposti insoliti contro-manifestanti: infermieri in camice e mascherina che hanno organizzato dei blocchi negli incroci in cui passava la marcia, la miglior rappresentazione dello scontro fra sicurezza e libertà.
Gli americani, contrariamente a quel che possano pensarne gli europei, sono tutt’altro che materialisti. I manifestanti d’oltreoceano non pensano soltanto ai soldi che stanno perdendo (cosa per altro legittima e comprensibile, di cui ci renderemo conto anche noi italiani solo quando usciremo dal nostro lockdown), ma anche all’arbitrarietà del potere e al rischio concreto di perdere la libertà in modo permanente. Fra i manifesti più brillanti si leggono cose come “Il governatore è un’attività non essenziale” e “I diritti costituzionali sono beni essenziali”. “C’è molta frustrazione su chi decide cosa sia essenziale e la gente sta soffrendo”, dice per esempio Tim Walters, militante del movimento Reopen Maryland. “Chiudere aziende scegliendo a priori vincitori e vinti, definendoli essenziali o non essenziali, è una violazione della Costituzione sia federale che statale”, reclama Tyler Miller, uno degli organizzatori del movimento nello Stato di Washington.
Il criterio di essenzialità (delle attività che possono restare aperte), che forse noi diamo per scontato, negli Stati americani in lockdown viene correttamente visto come una misura da socialismo reale. La storia dimostra che la pianificazione non è mai riuscita, perché nessun pianificatore può capire cosa produrre, quanto e come, in sintesi nessuno può prevedere cosa sia essenziale. E questa è la prima lezione importante che dovremmo imparare dalla protesta statunitense.
Resta lo stupore dell’osservatore al di qua dell’Atlantico che vede masse auto-organizzate di cittadini che si lamentano di uno Stato che li sta aiutando. Perché, si dirà, il lockdown è per il nostro bene, è una tutela della nostra salute. Siamo agli arresti domiciliari, è vero, ma solo per non finire in ospedale. Sì, ma dopo? Le libertà che abbiamo perso in questi mesi saranno integralmente ripristinate? Queste domande, in Italia, non ce le poniamo neppure, gli americani sono abituati a porsele in tutta la loro storia. La Rivoluzione Americana stessa è scoppiata contro uno monarca britannico che voleva aiutare i coloni americani (proteggendoli dalla concorrenza, dai francesi, dai nativi americani…), ma privandoli delle loro libertà tradizionali. Senza andare troppo lontano, il Tea Party più recente, quello del 2008-2010 (non quello all’origine della Rivoluzione) è sorto per auto-difesa da un Governo federale che voleva aiutare i cittadini durante la grande recessione, prima con il bailout alle banche e poi con lo stimulus per l’economia. Ma anche in questo, limitando la libertà attraverso un aumento di regole economiche e del debito pubblico (leggasi: tasse future).
Ed è soprattutto questa l’altra grande lezione dalle proteste dal Nuovo Mondo: la consapevolezza che quando lo Stato ti vuole aiutare, chiede sempre una contropartita insostenibile. “Le nove parole più terrificanti nella lingua inglese sono: Io sono del governo e sono qui per aiutarla” (Ronald Reagan). Pensiamoci bene, quando indosseremo il nostro braccialetto elettronico, prossimamente sui nostri polsi.