Nell’Italia del 2018 è molto difficile trovare in un dibattito pubblico o in un articolo di giornale le parole “privatizzare”, “liberalizzare” e “sanità” nella stessa frase. Tranne in pochi casi, è possibile leggerle od ascoltarle quasi esclusivamente con connotazioni negative, quasi come ci fosse da crocefiggere qualche eretico. Non è raro assistere quelli de “la Costituzione più bella del mondo” sbandierare ferocemente l’articolo 32 a chiunque si azzardi solo a porsi delle domande in merito: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. […]” è ormai il mantra mattutino della sinistra. A destra, invece, si tende ad evitare l’argomento: non si sa mai che l’elettorato possa storcere il naso tra un colpo alla botte e uno al cerchio.
Prima di continuare, una veloce premessa: chi scrive l’articolo non è né un malefico lobbista delle “big pharma” né un qualche sadico che si diverte a togliere i diritti “alla gente”, ma è solo un giovane universitario che grazie alla celerità del privato ed i servizi intramoenia ha potuto tirare un grande sospiro di sollievo.
Con il beneplacito dei costituzionalisti improvvisati, è proprio dall’articolo 32 che bisogna ripartire: la Repubblica riconosce la salute come un diritto dell’individuo e si prende carico di garantire le cure agli indigenti. Possiamo dire che ciò avvenga tutt’ora? Sono tristemente note da decenni le storie delle infinite liste di attesa: per una semplice visita si possono aspettare anche 65 giorni, mentre per alcuni esami specialistici possono passare tranquillamente più di tre mesi. Lo Stato, tramite la sanità pubblica, non sta adempiendo al suo dovere e perciò la liberalizzazione del settore diventa una battaglia vitale nel far valere i propri diritti individuali: la questione è che la società dovrebbe mettere la salute come priorità su ogni cosa, impegnandosi ad offrire servizi eccellenti nel miglior modo possibile anche se ciò significa uscire dal perimetro pubblico, senza scadere nell’integralismo pseudo-religioso dello “Stato-a-tutti-i-costi”.
Come realizzare tutto ciò? In primo luogo, è tempo di scrollarsi di dosso i vecchi e perpetui dogmi keynesiani secondo cui si può risolvere tutto con un pizzico di spesa pubblica in più, distribuendo un po’ di deficit qua e là come se si stesse usando la bacchetta della fata turchina: tralasciando le discussioni sul debito, dovrebbe essere lampante a tutti quanto l’amministrazione statale sia inefficiente e non trasparente nel gestire i soldi dei contribuenti (di tutti noi!). I tristissimi casi delle forniture dai costi triplicati alle ASL, della pessima gestione del personale tecnico-amministrativo e, al contempo, dei ricercatori d’eccellenza sottopagati sono solo gocce nel mare dello spreco quotidiano. In secondo luogo, bisogna abbandonare anche l’associazione automatica per cui privato = sistema americano, il quale purtroppo è caratterizzato da un’eccessiva presenza delle corporazioni e del sistema federale/burocratico.
Detto ciò, le parole chiave sono due: la prima è liberalizzazione, la quale differisce profondamente dalla privatizzazione. Liberalizzare non esclude né il settore privato né quello pubblico, ma tenta di sviluppare un ambiente in cui entrambi i sistemi possano coesistere e lavorare assieme nel migliore dei modi possibili. La seconda parola magica è competizione: mettendo le due realtà “in gara”, ne risulta una gestione dei fondi molto più diligente e mirata con un’offerta dei servizi migliore. Gradualmente, l’Italia potrebbe elaborare un apparato ibrido sulla falsariga di quello olandese. Per esempio, i cittadini potrebbero stipulare assicurazioni private – in un’ottica di libero mercato – a fronte di una importante diminuzione delle tasse (tanto per fare un esempio, tre quarti dei tributi ordinari che sarebbero destinati al SSN). Col pagamento di una franchigia annuale straordinaria di poche centinaia di euro, si potrebbero coprire le prestazioni non convenzionate. I player privati, essendo motivati dal profitto, troverebbero incentivo nell’offrire il miglior servizio possibile al miglior prezzo per attrarre maggiore clientela. I conti dello Stato ne gioverebbero in grandissima misura, poiché verrebbe meno una grandissima fetta dei costi che gravano sulla spesa pubblica.
Per chi non volesse usufruire di questa possibilità, non gli rimarrebbe altro che pagare la quota intera delle tasse come avviene normalmente, ma con una particolarità: nel caso di liste d’attesa troppo lunghe, il paziente avrebbe diritto a rivolgersi al privato con i costi addebitati sul SSN. Questo metterebbe in competizione i due sistemi, garantendo efficienza e trasparenza in entrambi i casi. In realtà, in Italia tale caratteristica esiste già secondo l’art. 3 del decreto legislativo n. 124 del 1998 in materia di tutela al diritto alla prestazione. E per i meno abbienti? La quota dei privati (il quarto dei tributi rimanente citato in precedenza) e la somma pagata dai restanti “pubblici” fungerebbe da rete sociale per i più disagiati.
Anche se queste sono solo poche idee per lo più abbozzate, lo scopo in realtà è quello di far ritornare nel dibattito pubblico la questione salute in modo propositivo, continuando a portare avanti la battaglia per far valere i diritti individuali dei contribuenti italiani: la competizione può essere usata saggiamente per aumentare la qualità dell’assistenza ed abbassare i costi. La maggior parte della sanità dovrà cambiare, modificando la sua struttura ed adottando misure per consentire una concorrenza più appropriata all’interno di nuove dinamiche di mercato. Utopia?