L’obiezione dell’amico socialista – o comunista – è sempre la stessa: la libera determinazione delle forze di mercato aumenta le disuguaglianze nella società. L’intervento dello stato è necessario per redistribuire la ricchezza, altrimenti fortuna di pochi se dovessimo applicare le politiche classiche del laissez-faire.
Chi si è avvicinato – come chi scrive – in età molto giovane alla politica, non può non aver sentito questo ritornello almeno una volta. Da un’egemonia culturale gramsciana siamo passati ad una vera e propria egemonia dell’intervento pubblico in economia, la cui forma più insidiosa rimane – a mio avviso – la centralizzazione a livello europeo.
La grandissima parte del palcoscenico politico della Prima Repubblica ci ha raccontato che il liberismo ha contribuito all’ascesa di fascismo e nazismo, che i due conflitti mondiali sono stati la conseguenza delle politiche liberali. Perfino alcuni padri costituenti – fra tutti Palmiro Togliatti e Gustavo Ghidini – parlavano dell’insostenibilità della concezione di libera concorrenza e di libera iniziativa in materia economica. Questo perché senza l’intervento dello stato – per i socialisti ripudiato dal pensiero liberista – il sistema economico andrebbe alla sbando.
Ma siamo proprio sicuri che il liberismo rifiuti in modo totale, ideologico, l’intervento pubblico? La risposta è no, ed il perché ce lo spiega uno dei padri del liberismo stesso: Adam Smith.
Smith, nel suo “La Ricchezza delle Nazioni”, non ignorava il potere statale, al contrario – checché se ne dica – gli attribuiva tre compiti fondamentali: la difesa dei confini nazionali, la garanzia della proprietà privata con la magistratura civile e, infine, la costruzione di tutte quelle opere pubbliche che il privato, autonomamente, non sarebbe stato in grado di realizzare. Riguardo quest’ultima funzione, lo Stato deve occuparsi della creazione di istituzioni garanti del libero commercio e del diritto all’istruzione per tutti i cittadini, con particolare attenzione alle fasce più giovani della popolazione.
Insomma, già nel 1776, anche il “cattivo” liberista Adam Smith sosteneva l’intervento pubblico in determinati settori e il ricorso alla spesa pubblica per la realizzazione di infrastrutture.
Come ha ricordato Nicola Porro, Smith detiene un record: “È forse il filosofo e l’economista liberale più conosciuto e meno letto che esista.” Questa frase, nella sua semplicità, raccoglie tanti anni di dibattiti superficiali sul liberismo, attribuendogli le colpe più gravi del secolo precedente e limitandolo semplicemente al concetto della “mano invisibile”.
In realtà, è molto di più. È un pensiero economico che parte da Adam Smith, confluisce nel libertarismo di Ayn Rand, passa per la scuola austriaca di Hayek e Mises, per poi arrivare alla scuola di Chicago di Milton Friedman.
Sia chiaro: il liberismo si oppone alla pianificazione ed alla programmazione dell’economica, non ai suoi controlli. Un mercato senza controlli non può esistere ma, allo stesso tempo, una pianificazione socialista dell’economia – come la storia dimostra – ha sempre portato a tragici risultati.