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Libertà di espressione non è libertà di poter parlare solo del tempo che farà: il caso Feltri

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Stampa e opinione pubblica dovrebbero essere, utilizzando un termine frettolosamente tradotto dall’Anglosfera, cani da guardia del potere istituzionale: dovrebbero essere liberi, appunto, di investigare, di essere eventualmente corrosivi e invasivi e di utilizzare anche, se necessario, toni urticanti.

E ci sono poi, a far da corollario e da contrappreso al modo serioso e algido in cui il potere tende troppo spesso ad autorappresentarsi, la satira, l’ironia feroce, il mottetto.

Lo ha riconosciuto anche la Corte Costituzionale, in una assai recente sentenza, la n. 150/2021, con cui il Giudice delle leggi ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’articolo 13 della legge sulla stampa, nella parte in cui detta norma prevedeva l’automatismo della previsione della sanzione detentiva per chi avesse diffamato a mezzo stampa: secondo la Corte Costituzionale, che richiama espressamente la funzione di watchdog dei giornali, la obbligatorietà della detenzione come pena prevista e da richiedersi contrasta con la ragione profonda e con il senso della libertà di espressione, potendo essere prevista solo a fronte di campagne infamanti, denigratorie, basate sistematicamente sulla attribuzione di presupposti e caratterizzazioni del tutto false riferite al soggetto diffamato.

A quanto pare, la Procura di Catania ritiene che per Vittorio Feltri la sentenza della Corte Costituzionale si situi ad una distinta latitudine e che quel titolo di Libero del 2017, quando Feltri era direttore del quotidiano, ‘La patata bollente’ riferito a Virginia Raggi sia meritevole della galera. E di ben tre anni e quattro mesi di galera, una sanzione assai severa se si considera che la forbice edittale oscilla tra un anno e i sei.

Il titolo è discutibile e volendo anche privo di particolare stile, ma davvero può ‘meritare’ tre anni di detenzione? È davvero così infamante da richiedere un intervento punitivo statale il cui esito sia il chiuso di una cella?

In primo luogo, se ragionassimo così dovremmo mandare sotto processo satira, ironia coriacea, nera e ultra-violetta, qualunque forma di critica sarcastica: ‘patata bollente’ d’altronde ha un aroma forse sessista ma anche dannatamente pop e trash, richiamando il famoso film di Steno del 1979 con Pozzetto e Ranieri, operando nei fatti un gioco di parole sulle vicende allora spinose della sindaca di Roma alle prese con intercettazioni, vicende personali e nomine problematiche.

La vicenda, come gran parte delle questioni che vedono protagonisti a vario titolo dei cinquestelle, si colora sempre di un tracimante giustizialismo esibito e altrettanto pop, proprio come ‘la patata bollente’ del titolo incriminato: infatti, nel 2019, e lo ricorda tra gli altri anche Il Fatto Quotidiano, la Sindaca Raggi espresse grande soddisfazione a mezzo social per aver ottenuto il rinvio a giudizio di Feltri da parte del GUP di Catania, dimostrando con questo una esibizione tifosa degli esiti dell’azione giudiziaria e ammantando quel passaggio processuale di una veste di trionfo del genere femminile vittima more solito della cultura maschilista.

La Raggi ha tutto il diritto di sentirsi offesa per quella espressione utilizzata da Libero. Vanta anche tutti i diritti di agire in sede civile risarcitoria laddove ritenga di aver patito un danno.

Quel che però risulta del tutto inaccettabile, e infatti la Corte Costituzionale lo ha ben compreso e argomentato, è che lo sbocco di una espressione o di uno scritto, per quanto sgradevole, sia o possa essere la galera.

E, diciamolo pure, con una pena del tutto sproporzionata rispetto alla effettiva offesa, considerando che parliamo di una richiesta detentiva di tre anni e quattro mesi: non sono un grande patito delle comparazioni tra reati per dimostrare la illogicità di alcuni regimi sanzionatori e di certe richieste punitive dei sostituti procuratori, ma vi basterà scartabellare tra i vari reati che compongono il nostro codice penale per comprendere come tre anni e quattro mesi siano una richiesta da reato di discreta gravità.

Non abbiamo la libertà di espressione per starcene a bofonchiare di vestiti, calcio o meteo, abbiamo la protezione dalle interferenze censorie e punitive dei pubblici poteri per esprimere le nostre opinioni, le nostre verità, le nostre salaci battute.

Sosteneva Feuerbach che la parola fa l’uomo libero e che chi non si può esprimere è o diventa uno schiavo. Proprio per questo, la libertà di espressione è un cardine essenziale, irrinunciabile dell’architettura garantistica di un ordinamento liberale e moderno.

D’altronde se applicassimo il metro di giudizio dei pm catanesi, dovrebbe esserci a rigore la fila di giornalisti e direttori responsabili, visti certi titoli in circolazione, sul banco degli imputati, a sentirsi richiedere anni e anni di galera per il frutto, per quanto discutibile, del loro lavoro.

Questo pone anche problemi assai seri di doppi standard e di applicazioni a macchia di leopardo, su base magari territoriale a seconda della procura di riferimento e di come la pensino i magistrati di quella data procura, per la somma gioia della eguaglianza dei cittadini davanti la legge, della certezza del diritto, della omogeneità delle pretese punitive e sanzionatorie. La discrezionalità è accettabile, e necessaria, nel diritto amministrativo, a date condizioni in quello civile, ma diventa del tutto inaccettabile nella sfera penale.

Chiaramente nessun magistrato è un organo meccanico e il diritto è sempre anche interpretazione e applicazione empirica, e questo può produrre alcune discrasie, ma a fronte di una cristallina pronuncia della Corte Costituzionale appare davvero sconcertante una simile richiesta.

Non mi si obietti che la libertà di espressione vada esercitata con responsabilità, perché non sto in alcun modo sostenendo che la parola possa andare esente da apprezzamento civile risarcitorio laddove la persona si senta lesa nel suo decoro e nella sua dignità: la questione però è di quale responsabilità si stia parlando.

Una responsabilità di matrice civile vede il giudice come soggetto terzo in una contesa tra due soggetti privati che formuleranno le loro deduzioni, i loro apprezzamenti, senza intromissioni ex ante di un soggetto pubblico.

La responsabilità penale invece, con l’esercizio della sua azione sin dall’inizio e del tutto slegata dalla volontà dei soggetti nel suo successivo dispiegarsi, comprime fino a stritolare il senso stesso della libera espressione, paventando lungo la linea d’orizzonte il rischio del carcere.

Mauriche Blanchot scriveva che ‘si deve dire tutto. La prima libertà è la libertà di dire tutto’. Ed il punto è esattamente questo: il potere pubblico, laddove intervenga con i suoi meccanismi, i suoi ingranaggi spesso tortuosi, le sue promesse di sanzione, porta con sé non solo lo spettro della censura ma anche quello della auto-censura: il giornalista, l’intellettuale, l’opinionista che assista allo ‘spettacolo’ di un Feltri a rischio galera, ci penserà due, tre, quattro volte prima di indulgere in sarcasmo o in titoli o articoli corrosivi.

E così facendo, col passaggio del tempo, sbiadirà la possibilità di prendersi gioco del potere e la critica al potere stesso si renderà sempre più blanda, sempre meno ficcante, occhiuta e rilevante: il trionfo del Leviatano, in poche parole.

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