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Libertà di migrare, diritto di escludere: la questione migratoria in una prospettiva paleolibertaria

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C’è in una frase di Ovidio tutto il senso disperato e drammatico della questione migratoria: “È turpe non accogliere in casa l’ospite, più turpe è lo scacciarlo”.

A prima vista sembrerebbe quasi un inno alla accoglienza totale, senza alcuna restrizione, ma se leggiamo bene la frase ci rendiamo conto di come faccia giustizia di tutte le latenti o esplicite contraddizioni di destra e sinistra quando approcciano il tema del governo razionale dei flussi migratori.

Non si possono erigere barriere impenetrabili respingendo chiunque, individuando nel singolo migrante una sorta di nemico oggettivo, schmittiano, ma allo stesso tempo c’è in quei due termini, ‘ospite’ e ‘casa’, il punto saliente della risoluzione: l’approccio proprietario e puramente privatistico che dovrebbe disarticolare la caotica, irrazionale, confusionaria gestione del potere pubblico.

Ma in primo luogo chiediamoci, migrare è un diritto? Certamente la mobilità, lo spostamento, rappresentano patrimonio ineludibile dell’animo umano e della sua natura.

E allo stesso tempo, come ha scritto Hans-Hermann Hoppe nel suo assai esplicito “Libertà di accogliere, diritto di escludere”, libero scambio commerciale e restrizioni ai flussi migratori sono politiche tra loro perfettamente coerenti, posto che i flussi molto spesso vengono polarizzati e attratti non da inviti volontari da parte di singoli o aziende ma dal miraggio di poter partecipare al banchetto dello Stato sociale. Non è possibile paragonare la circolazione libera di merci e servizi che avviene su base contrattuale e lo spostamento umano che spesso si situa fuori da un canone sinallagmatico o volontaristico.

Se da un lato abbiamo la destra che gioca a fare la faccia feroce in maniera spesso ipocrita e ripugnante, dall’altro lato abbiamo tutti i peggiori cascami del progressismo sporco di caviale, quello della accoglienza totale celebrata come unica soluzione ai drammi mondiali, e che poi si volta dall’altra parte quando deve prendere atto che tutti gli accolti vivono in condizioni fuori da qualunque regola umanitaria, igienica, lavorativa, ammassati nel sole di rame di afose giornate estive, ammucchiati come deportati nei parcheggi delle stazioni, abbandonati a loro stessi.

Anche nel pensiero libertario, la questione migratoria ha da sempre diviso in maniera netta i pensatori: se da un lato abbiamo chi come David Friedman nel suo “L’Ingranaggio della libertà”, in un paragrafo titolato “Apriamo le frontiere”, sostiene la necessità di un approccio open borders che farebbe beneficiare sul lungo periodo sia culturalmente sia socialmente il tessuto di una data nazione – anche se per vero la logica seguita da Friedman sembra attagliarsi esclusivamente agli Stati Uniti – oppure il primo Murray N. Rothbard che in “Potere e mercato” considerò assai criticamente le restrizioni statali ai flussi migratori, salvo poi rivedere radicalmente le proprie posizioni a partire dal celebre articolo “Nations by consent”, oppure che risolse la questione in “L’etica della libertà”, demandando tutto a un approccio proprietario e privato; dall’altro abbiamo poi altre argomentazioni particolarmente dettagliate e analitiche decisamente opposte alla libera immigrazione senza alcuna forma di restrizione, penso nel caso di specie al già citato Hans-Hermann Hoppe o a Llewellyn H. Rockwell, Jr, autore di un assai esplicito “I confini aperti sono un attacco contro la proprietà privata”.

Vero è che il concetto stesso di confini aperti ha scarso senso, perché postula la presenza dello Stato che delimita per fini ordinamentali e di estensione della propria potestà il territorio che si è dato nella evoluzione storica: l’unico confine reale, naturale, storico, tangibile è quello della nostra proprietà privata, dentro cui possiamo accogliere chi meglio crediamo e da cui possiamo parimenti escludere chiunque non sia gradito. Al contrario, la presenza statale ci obbliga ad una accoglienza che potrebbe essere ben accetta da alcuni ma decisamente sgradita ad altri.

L’immigrazione pone una serie di questioni che dovrebbero appunto essere affrontate in una prospettiva puramente privatistica, perché solo il soggetto conosce le sue esigenze, le sue idiosincrasie, ciò che per lui è meglio o peggio: l’immigrazione incontrollata è senza dubbio alcuno una violazione della proprietà privata perché apre le porte non della nazione ma di casa nostra, e lo fa sulla base di scelte imposte dal potere pubblico.

E se non lo fa in senso letterale, ma in alcuni casi (si pensi alle requisizioni prefettizie di alberghi dentro cui alloggiare migranti) l’espressione andrebbe presa in chiave veramente letterale, lo fa nella dura metafora delle tasse che versiamo allo Stato per la erogazione dei servizi, in quel coacervo labirintico e caoticamente irrazionale che prende il nome di Stato sociale. Le nostre tasse non solo vengono quindi utilizzate per sussidiare anche i migranti, si pensi al reddito di cittadinanza, ma spesso sono dirette in origine alla gestione e alla governance dei flussi migratori.

C’è poi un altro aspetto, sempre legato alla presenza statale e alla incidenza, diretta o indiretta, sulla nostra proprietà: la costruzione di aree, istituzionali o meramente fattuali, dentro cui ammassare i migranti, i richiedenti asilo, i minori (presunti) non accompagnati, la erezione di una burocrazia che smisti, visti, controlli, certifichi, e che nel mentre faccia sedimentare geologicamente ondata di migranti su ondata di migranti.

Nel tessuto urbano si vengono a costituire aree in cui i migranti finiscono con l’essere ancora di più dei residenti italiani, con un cambiamento radicale del tessuto sociale ed economico, e con un maquillage evidente che incide sulla nostra stessa proprietà.

Una passeggiata nel ventre delle nostre principali città vale molto più di tante parole, e ancor più vale l’idea della svalutazione della vostra abitazione se avete la sventura di vivere nel quartiere ‘sbagliato’.

Tornando per un istante ad Ovidio, se io accolgo qualcuno non posso poi accettare di farlo vivere nel liquame, in una favela indegna, senza mezzi di sostentamento, ma al tempo stesso l’accoglienza deve essere una libera scelta, e nessuno, né individuo, né gruppo né lo Stato possono obbligarmi ad accogliere, mettendo in atto tutti quei dispositivi di colpevolizzazione morale su razzismo, colonialismo, sfruttamento, minoranze varie, tanto per ingenerare un elemento di obbligazione morale così forte da dovermi far accettare il flusso continuo di migranti, da sussidiare anche con le mie tasse o da ospitare nella mia proprietà privata.

Ma allora cosa fare in concreto?

Punto primo: la gestione dovrebbe seguire linee economiche legate al tessuto di aziende desiderose di utilizzare manodopera straniera. In questa cornice, che sarebbe squisitamente contrattuale, il migrante verrebbe chiamato e già a monte saprebbe dove verrebbe poi alloggiato e a quali condizioni salariali e di diritti, anche culturali (penso alla sfera religiosa), presterebbe la propria opera. In questa cornice dovrebbero essere stipulate polizze assicurative contro danni a cose o persone per eventuali comportamenti anomici posti in essere dal migrante.

Nel caso della gestione pubblica, dovrebbero essere aumentati i canoni di responsabilità dei pubblici funzionari che vistino e accettino pratiche migratorie di accoglienza laddove da ciò siano derivati danni diretti o indiretti alla proprietà o a persone: nei fatti, si tratterebbe di renderli corresponsabili in chiave risarcitoria dei danni ingenerati.

Ciò porterebbe ad una maggiore attenzione a ciò che si sta facendo e si supererebbero di slancio certe prese di posizione burocratiche dettate da ideologismo; d’altronde da sempre, come rilevato da Ludwig von Mises nel suo “Burocrazia”, il pubblico funzionario è spesso disinteressato all’esito delle sue decisioni perché non sopporta alcun costo diretto derivante da quelle. Il burocrate opera in un quadro centralizzato, pianificato, privo di vere informazioni, e privo di vera responsabilità, maneggiando denaro non proprio e curando ‘interessi’ o ‘diritti’ altrettanto non propri.

Punto secondo: la presenza statale legittimata dal pagamento delle tasse dovrebbe portare in conseguenza alla consultazione della cittadinanza di un dato quadrante o di un quartiere al fine di sapere ex ante se sarebbero disposti a ospitare certi quantitativi di gruppi di migranti. Appare chiaro come possano darsi aree che si opporrebbero ed altre desiderose di sperimentare il sogno multiculturale che al contrario si esprimerebbero a favore.

Punto terzo: drastica riduzione dello Stato sociale. Case popolari, reddito di cittadinanza, sistema sanitario pubblico rappresentano da sempre potentissimi attrattori dei flussi migratori. Si sostiene: anche i migranti pagano le tasse e alimentano lo Stato sociale. I migranti però che pagano le tasse sono i regolari mentre appare evidente che i flussi di cui parliamo e che creano i problemi, e gli attriti maggiori sono quelli irregolari: uno straniero irregolare, semplicemente, non paga le tasse perché non può farlo.

E se a qualcuno venisse in mente di obiettare che allora si potrebbe sanare o regolarizzare in massa (come ogni tanto lo Stato, desideroso di trovarsi sempre nuovi contribuenti, fa), torneremmo al punto di partenza sulla proprietà privata: la scarsità delle risorse e la finitezza, concettuale e spaziale, della proprietà militano grandemente a sfavore di questa soluzione, a meno che non si voglia alimentare una guerra tra poveri.

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