“Conosco a menadito tutte le argomentazioni contro la libertà di pensiero e di parola, conosco i discorsi di chi sostiene che non può e non deve esistere. Rispondo semplicemente che non mi convincono e che per quattrocento anni la nostra civiltà si è fondata sul principio opposto”
Il libro è “La fattoria degli animali”, l’autore è George Orwell e le righe, qui sopra menzionate, sono tratte dalla sua prefazione. Le difficoltà nella pubblicazione, l’attrazione russa di una parte dell’intellighenzia britannica, l’intolleranza verso la libertà di espressione. Tutto, di questa prefazione, sembra incastrarsi a pennello nella realtà conflittuale odierna.
“Se dovessi citare un testo a giustificazione della mia scelta indicherei il verso di Milton: Secondo le note leggi dell’antica libertà“, chiosava Orwell per avvalorare la sua tesi.
L’autore era convinto della realtà negativa del regime sovietico. Rivendicava con fermezza il diritto ad esporla, a discapito della nota alleanza tra Unione Sovietica e Gran Bretagna durante la Seconda Guerra Mondiale. Ad opporsi trovò gran parte degli intellettuali britannici, schierati acriticamente dalla parte del regime staliniano e altrettante case editrici, restie nella pubblicazione dello scritto.
L’attuale situazione per molteplici aspetti è analoga. I protagonisti sono gli stessi, ma le parti invertite. Abbiamo una guerra nel cuore dell’Europa, le alleanze militari sono ben definite ma differenti da allora. Assistiamo in egual modo alla propaganda di guerra, alla mistificazione della realtà e alle restrizioni alla libertà di espressione che, talvolta, sfociano nella censura.
La prefazione di questo scritto può offrire diversi spunti di riflessione. Se realmente non vogliamo commettere gli errori del passato e, anzi, imparare da questi, dobbiamo agire con cautela: individuare i principi chiave che contraddistinguono le società occidentali e tutelarli, ad ogni costo. Calandoci nel quadro geopolitico odierno, se veramente vogliamo definire la guerra in Ucraina come una “battaglia di valori”, tocca a noi, in quanto occidentali, l’obbligo di difendere i nostri. Partendo da quello che, in tali circostanze, risulta essere il più fragile, la libertà di espressione e di pensiero.
La tutela di questo principio cardine passa attraverso un esame di coscienza. La tendenza ad una limitazione di tale principio è una dinamica pericolosa che sta attraversando tutte le democrazie liberali, in primis gli Stati Uniti. La persecuzione di studiosi e scrittori (vedi il caso Rowling), la censura della letteratura russa e in particolare di un corso universitario su Dostoevskij, il fenomeno travolgente della Cancel Culture rappresentano soltanto l’apice di un generale indebolimento della tradizione liberale occidentale. Ergersi a difensori della democrazia contro il regime autocratico di Putin non solo si traduce nell’aiutare l’audace resistenza ucraina. Vuol dire anche tutelare i nostri valori, conservarli e non svenderli. Significa rispettare il contraddittorio, tollerare le posizioni scomode, anche quelle più urticanti. Significa combattere l’allineamento acritico e rimettere al centro del dibattito il beneficio del dubbio, inteso come combustibile della nostra civiltà. Questa, in fondo, è la principale differenza tra noi e loro. Tra la democrazia e la dittatura. Tra l’Italia e la Federazione Russa.
L’importante, in cuor proprio, è riconoscere il labile confine tra opinione e menzogna e rimanere ben ancorati alla prima. Evitare per qualsiasi ragione di sfociare nella propaganda del Cremlino o dare adito alle sue incoerenze storiche.
Quindi ben vengano le illogicità del professor Orsini, ben vengano i deliri storici del ministro degli esteri russo Lavrov. Saremo noi a decidere, a posteriori, se integrare o meno queste posizioni e se farne nostra opinione. Ben venga l’apprendimento della cultura russa o della sua letteratura, tanto meglio se si tratta di corsi universitari su Dostoevskij. Questo conflitto, se pur atroce, non può e non deve distruggere la pluralità del nostro dibattito.
“Se la libertà significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuole sentirsi dire”. Così, George Orwell decise di chiudere la sua prefazione, con quella che tuttora rimane una tra le frasi più celebri dello scrittore britannico. Ecco che, quando questa frase sarà diventata il leitmotiv del nostro dibattito, allora, potremo dirci sicuramente dalla parte giusta della storia.