L’incognita bielorussa: Mosca reagisce e Bruxelles annaspa: ma Putin c’entra davvero con il dirottamento?

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C’è grande fermento sull’asse Mosca-Minsk: il premier Mishustin corre nella capitale bielorussa per una visita di due giorni e oggi Lukashenko torna a sedersi con Putin a Sochi, in un vertice convocato d’urgenza dopo il dirottamento aereo di domenica scorsa. Segno che, contrariamente a quanto insinuato da più parti, la Russia non deve aver digerito troppo bene l’azione di pirateria aerea del riottoso e imprevedibile vicino.

Certo, la presenza di tre passeggeri russi (agenti segreti?) sul volo Ryanair diretto a Vilnius e costretto a un atterraggio forzato in territorio bielorusso non aiuta a chiarire la posizione di Mosca, sulla quale circolano sostanzialmente tre tesi: che il Cremlino sapesse tutto o addirittura abbia partecipato al dirottamento, che non ne fosse al corrente ma che abbia coperto a posteriori Lukashenko cercando di trarre vantaggio dalla situazione, che sia stata presa di sorpresa ma non voglia darlo a vedere. La copertura dei media russi è stata immediata e quasi unanime nel giustificare il caso come una “questione di sicurezza” (il famoso allarme bomba), nel tacere qualsiasi riferimento al dissidente arrestato (Roman Protasevich) e nell’accusare – oh, sorpresa – l’Occidente di “doppio standard”, in riferimento a un analogo episodio di qualche anno fa legato alla vicenda di Edward Snowden.

Lo storico Timothy Snyder è arrivato a sostenere che Mosca avrebbe coordinato l’azione con il duplice obiettivo di creare un precedente da replicare in futuro e di aumentare l’isolamento della Bielorussia dall’Europa, in modo da rendere inevitabile l’annessione di fatto del Paese. La giornalista Anne Applebaum ha sottolineato invece come la detenzione di Protasevich confermi una tendenza dei regimi autoritari ad applicare le proprie misure coercitive anche al di fuori dei confini nazionali, in una sorta di estensione transnazionale della repressione interna in grado di cambiare il destino di centinaia di dissidenti, che non sarebbero più al sicuro nemmeno nei Paesi di accoglienza.

Al danno si aggiunge anche la beffa di un Lukashenko che, invece di dare spiegazioni alla comunità internazionale, ha preteso pubblicamente “una compensazione da parte dell’Occidente” per “l’incidente” nei cieli bielorussi. Il che, se non altro, dimostra due cose: che le misure sanzionatorie annunciate dal Consiglio europeo non hanno alcun effetto dissuasivo su autocrati di questa natura e che, prima o poi, i regimi autoritari finiscono sempre per scaricare le tensioni domestiche all’esterno, creando vere e proprie crisi internazionali che si trasformano automaticamente in minacce alla sicurezza collettiva. Ma c’è anche un altro aspetto rilevante: che avesse informato o no Mosca, Lukashenko ha dimostrato di confidare pienamente nell’appoggio di Putin, tanto da mettersi di traverso all’intera Unione europea. Una scommessa che, al momento, sembra aver vinto.

È di ieri pomeriggio la la clamorosa decisione delle autorità russe di vietare il loro spazio aereo alle compagnie europee che, per rappresaglia, non transitino sulla Bielorussia. Bruxelles annaspa, come sempre. Nell’immediatezza del sequestro Ursula Von der Leyen lo ha definito curiosamente “un attacco alla sovranità europea”, come se esistesse tal cosa. Nel vertice dei 27 convocato da Michel per rispondere all’affronto si è decisa l’estensione delle sanzioni (già in vigore contro Minsk) ai funzionari direttamente coinvolti nel dirottamento, oltre all’esclusione dei cieli bielorussi dalle rotte degli aerei europei e il divieto di sorvolo di quelli comunitari da parte della compagnia di bandiera di Lukashenko. Per quanto sterile, rimane quella sanzionatoria l’unica politica che l’Unione sembra capace di esprimere in assenza di hard power. Si tratta però di risposte emotive, più tipiche di un’associazione privata che tenta di difendere i propri membri, che di un’istituzione pubblica che pretende di assorbire le competenze dei singoli Stati. Perché le sanzioni abbiano qualche effetto pratico bisognerebbe prima di tutto sapere che obiettivo si propongono, salvo diventare semplicemente un meccanismo ripetitivo e autoreferenziale. In questo caso non è molto chiaro cosa si voglia ottenere, se la sicurezza dei voli, l’indebolimento del regime di Minsk, l’aumento della pressione su Mosca o di tutto un po’. D’altra parte, eventuali iniziative dei governi nazionali al margine dell’Unione europea – probabilmente le uniche efficaci – certificherebbero la sostanziale impotenza del progetto comunitario e la sua conclamata inconsistenza geopolitica.

Ma torniamo un momento a Putin. Il presidente russo era appena uscito da una settimana a dir poco propizia: l’incontro Blinken-Lavrov in Islanda, la rinuncia degli Stati Uniti a ostacolare il completamento del North Stream 2, l’ultimo sondaggio dell’Istituto Levada con una nuova impennata nel consenso (65 per cento di gradimento). Improbabile che sentisse il bisogno di alzare il livello dello scontro progettando o agevolando un atto di pirateria aerea in combutta con Lukashenko. È vero che il Cremlino e i suoi servizi segreti ultimamente non hanno dato prova di particolare lucidità e scaltrezza nella realizzazione delle loro missioni, ma una cosa è giocarsi la reputazione per dar la caccia a un nemico giurato come Navalny, un’altra è scavarsi una fossa diplomatica per permettere l’arresto di un giornalista bielorusso, per scomodo che possa risultare a Minsk.

Il primo a non credere al coinvolgimento russo è proprio Joe Biden che, il giorno dopo il fattaccio, ha fatto pervenire al suo omologo l’invito ufficiale al summit di Ginevra il prossimo 16 giugno. Un bel salvagente, non c’è che dire, mentre in Europa montavano i sospetti. Al di là delle possibili ritorsioni, dal punto di vista politico non è indifferente che Lukashenko abbia attuato in solitario o accompagnato dall’FSB: nel primo caso saremmo di fronte a un atto sconsiderato ma personale, dettato dalla disperazione; nella seconda ipotesi a un’azione coordinata per mettere l’Occidente di fronte al fatto compiuto e testarne la determinazione nella risposta. A chi sostiene che Lukashenko non agirebbe mai senza consultare il suo protettore va ricordato che, fino allo scoppio delle manifestazioni in Bielorussia lo scorso agosto, la linea del governo di Minsk in ambito internazionale era stata piuttosto ambivalente: risale infatti a pochi mesi prima la visita dell’allora segretario di Stato Mike Pompeo, un incontro che il regime non aveva mancato di enfatizzare a conferma della sua indipendenza e autonomia da Mosca. Poi la farsa elettorale e le proteste hanno cambiato tutto e al batka non era rimasta altra scelta che accettare l’abbraccio soffocante di Vladimir Putin.

Mentre tutti alzano gli occhi al cielo, comunque, la terra bielorussa continua a macchiarsi di sangue. Le vittime degli ultimi giorni di ordinaria repressione non sono solo Roman Protasevich e la sua fidanzata Sofya Sapega. Mercoledì parenti e amici seppellivano Witold Ashurok, prigioniero politico morto (ucciso, dicono i suoi cari) in una delle tante prigioni del Paese. Circola in rete anche un video dove lo si vede stramazzare al suolo improvvisamente dopo aver ricevuto assistenza dai suoi carcerieri. Dima Stakhovsky, diciassettenne, si è invece tolto la vita dopo che le autorità lo avevano minacciato con una pena di 15 anni di carcere per i fatti di agosto. Le stesse autorità che hanno condannato a 4 anni Iryna Shchastnaya, amministratrice di canali Telegram, per il suo ruolo di attivista politica. Guardiamo al cielo ma in mezzo all’Europa c’è un buco nero di diritto e di dignità che nessuno sembra in grado di ricoprire.

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