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L’incontro con Kim è un azzardo: Trump “spacconeggia”, ma guai a sottovalutarlo

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Se applicassimo gli stessi standard di giudizio che i mainstream media applicano ai presidenti democratici, e in particolare a Barack H. Obama, dovremmo già proporre Donald Trump per il Nobel per la Pace dopo l’annuncio della sua disponibilità a incontrare il dittatore nordcoreano Kim Jong Un. Il primo incontro tra i leader dei due Paesi in 70 anni. Premesso che non sarebbe la prima volta che Pyongyang esce dall’angolo aprendo colloqui che non portano a nulla, se non a farle guadagnare tempo per il suo programma nucleare e missilistico, e mezzi di sopravvivenza (quindi non c’è da essere ottimisti nemmeno stavolta…), per molto meno – un paio di discorsi – a Obama avevano già consegnato il Nobel per la Pace.

Epperò… non si può non sottolineare come l’improvvisa e inattesa apertura di Kim, corrisposta da Trump, fosse anche uno strettissimo e accidentato viottolo verso la pace, copra di ridicolo i fiumi di inchiostro dei giornaloni e le parole dei soliti “esperti”, che si sono fin qui divertiti a sbeffeggiare l'”infantile” retorica personale di Trump a suon di tweet, con le reciproche minacce di distruzione nucleare, e a bollare come irresponsabile, guerrafondaio, l’aumento della pressione sia militare che economica sulla Corea del Nord. Le sanzioni più dure mai approvate, l’invio di navi e aerei militari, le esercitazioni congiunte a largo della penisola coreana, il coordinamento con i paesi alleati nell’area, la compattezza della linea concordata tra Casa Bianca, Pentagono e Dipartimento di Stato. Insomma, proprio quel genere di azione politica e diplomatica ben orchestrata che si supponeva l’amministrazione Trump, e il presidente in particolare, fosse incapace di mettere in pratica. Gli ultimi sviluppi della crisi nordcoreana, le aperture di Kim e l’annuncio dell’incontro, a prescindere dall’esito finale, suggeriscono che Trump e il suo staff sono capaci di condurre la complessa macchina della potenza americana più di quanto i loro critici si aspettassero. Il nuovo approccio Usa ha in qualche misura cambiato la dinamica tra i diversi player in campo.

E a denti stretti, anche alcuni dei giornali arci-nemici di Trump sono stati costretti a dargliene credito: “La linea dura del presidente sulla Corea del Nord produce un bel colpo diplomatico, per ora”, titola il Washington Post, che prosegue: anche “i pessimisti” sostengono che la strategia della “massima pressione” del presidente Trump “ha giocato un ruolo importante nel portare Kim al tavolo”. Il britannico Indipendent avverte: “Se Trump riesce dove Obama ha fallito sulla Corea del Nord, forse prenderà il Nobel per la Pace – avendolo meritato”. E prosegue: “Lo scetticismo a Washington abbonda. Ma non saremmo dove siamo ora se non fosse per la pressione estrema esercitata da Trump. Pressione che Obama scelse di non esercitare”.

Il bias anti-Trump ha portato i mainstream media, sia americani che europei, ad innamorarsi persino della sorella dello spietato dittoratore nordcoreano, Kim Yo Jong. Cronache grottesche di cui ci ha dato conto con estrema precisione Rob Piccoli su Atlantico. Alla cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi invernali in Corea del Sud, con la sua “sobria bellezza” (Washington Post) avrebbe “affascinato, rubando la scena a Pence” (New York Times), il vicepresidente Usa reo invece di non avergli nemmeno stretto la mano e di non essersi alzato mentre gli atleti delle due Coree sfilavano insieme.

Un successo di immagine come solo i media occidentali sanno regalare alle più sanguinarie dittature, ma a ben vedere un fallimento diplomatico. Se con la sua ammaliante presenza la sorella di Kim intendeva dividere, inserire un cuneo tra il Sud e gli Stati Uniti, dimostrando quanto il Nord non fosse affatto isolato, e se anche fosse ciò che è emerso dalla superficiale copertura mediatica degli eventi, le cose sono andate un po’ diversamente: il presidente sudcoreano Moon Jae-in si è dimostrato molto cauto e invece di accettare subito l’invito a Pyongyang, ha sollecitato Kim a parlare direttamente con gli Stati Uniti. Medaglia d’oro diplomatica al presidente Moon, dunque, che ha incassato un successo politico grazie alle immagini di disgelo tra le due Coree, senza però cadere nell’ingenuità di dare l’impressione di voler giocare la partita relegando gli Usa in panchina.

E’ ancora presto per concludere che l’incontro tra i due leader, previsto entro maggio, dimostra che la strategia di Trump sta funzionando. E’ vero che da alcune settimane Pyongyang sembra aver mutato atteggiamento: l’ultimo test risale al novembre 2017; dopo capodanno la riapertura della linea di comunicazione diretta tra Nord e Sud; quindi la partecipazione degli atleti del Nord alle Olimpiadi invernali in Corea del Sud e la sorella di Kim che invita il presidente sudcoreano a Pyongyang. E infine, la missione nella capitale nordcoreana degli inviati del Sud, che ricevono da Kim la richiesta di incontrare Trump. “Mai avuta una posizione negoziale così forte”, grazie alla pressione voluta da Trump, osserva il direttore della Cia Mike Pompeo, confermando che durante i colloqui “non ci saranno concessioni”.

Ma ad essere sinceri, a prescindere dall’esito, l’incontro rischia di rivelarsi come l’ennesima spacconata di Trump, stavolta però in grado di danneggiare sul serio la sua credibilità internazionale. Non si concede a uno come Kim, con la storia di fregature che hanno alle spalle i nordcoreani, un summit alla prima botta, senza prima vedere le carte. La mossa coglie sì di sorpresa tutti gli attori coinvolti, Cina in primis, ma la mera disponibilità ad incontrare Kim di persona ne accresce la statura sulla scena internazionale, per lui è già una vittoria. Molto alto quindi è il rischio che si prenda ciò che vuole, ovvero la legittimazione internazionale, potendo tornarsene a casa dicendo che viene trattato da pari a pari da una superpotenza, o addirittura che il presidente americano si è dovuto inchinare di fronte a lui spaventato dal potente arsenale nucleare nordcoreano, e vendendo l’incontro come il primo passo per il riconoscimento alla Corea del Nord dello status di potenza nucleare. Anche a Trump però, visti i rischi incalcolabili di un attacco preventivo, potrebbe convenire in chiave interna un periodo di relativa distensione, che culminerebbe con lo storico incontro, in un anno di elezioni di midterm decisive per il controllo del Congresso.

L’incontro faccia-a-faccia, ammettono anche fonti della Casa Bianca, è un “rischio calcolato”, ma anche “l’unica via praticabile per la pace”. Un negoziato bilaterale senza dover promettere nulla di concreto è sempre stato l’oggetto del desiderio di Pyongyang. Per questo da Washington si invita alla cautela: è “troppo presto anche solo per iniziare a pensare ai negoziati”. E comunque “le sanzioni rimarranno in piedi fino a che non sia stato raggiunto un accordo”, assicura Trump.

Il problema infatti è che per 25 anni il copione è stato sempre lo stesso: provocazioni nordcoreane, tensione, distensione, negoziati, aiuti economici. Tempo perso, o guadagnato, a seconda dei punti di vista. In questo modo Pyongyang si è assicurata miliardi di dollari (forse decine) di assistenza economica di vario genere, mentre più o meno segretamente continuava a sviluppare il programma nucleare che aveva promesso di sospendere in cambio degli aiuti.

Oggi sia Kim che il presidente sudcoreano Moon, per motivi evidentemente diversi, avrebbero l’interesse a “fregare” il presidente americano, facendo leva sulla sua autostima per trascinarlo in un summit dal quale ha tutto da perdere. Da parte di Kim la sospensione dei test per qualche settimana è una concessione minima sempre reversibile. Nulla assicura che lo schema non sia il solito: guadagnare altro tempo per sviluppare una testata nucleare da mettere su un missile intercontinentale capace di raggiungere gli Stati Uniti. Stavolta Pyongyang sarebbe pronta a parlare di “denuclearizzazione permanente”, non di un congelamento, sostengono i sudcoreani, forse troppo ansiosi che venga raggiunto un accordo purchessia, basta che eviti un conflitto. Ma l’idea di denuclearizzazione di Kim potrebbe essere molto “costosa”, prevedere termini che Washington non potrebbe mai accettare. Per esempio, la rinuncia alle sue testate se gli Stati Uniti faranno altrettanto, o se ritireranno i loro contingenti militari dalla Corea del Sud e firmeranno un trattato di pace con il Nord. Potendo contare per la prima volta su una qualche deterrenza nucleare (una o più dozzine di testate), la presunzione non del tutto errata di Pyongyang di negoziare da una posizione di maggiore forza rispetto al passato potrebbe indurla ad alzare il prezzo. Pur se improbabile che ottenga tanto, Kim può sperare come minimo in un alleggerimento delle sanzioni, proprio quando stanno iniziando a metterlo alle strette, e in ulteriori aiuti economici.

Eppure, nonostante le incognite e le nostre perplessità, se c’è una minima possibilità che la Corea del Nord denuclearizzi, questa è certamente legata alla “massima pressione” esercitabile dagli Stati Uniti e dai suoi alleati su Pyongyang (e su Pechino), di cui forse i dazi sull’import di acciaio e alluminio decisi da Trump fanno parte (la richiesta di incontro da parte di Kim arriva subito dopo l’annuncio dei dazi che colpiscono, tra gli altri, anche l’export cinese). Come ha ricordato Walter Russell Mead, “lo sforzo per denuclearizzare la Corea del Nord è tutto in salita. Ma ciò non significa che sia inutile e che non debba essere fatto. A volte la diplomazia consiste nel muovere una serie di piccoli passi senza avere la cima in vista. E mentre cammini pazientemente verso l’alto, nuovi sentieri si aprono – e nuove scelte devono essere fatte”.

Inoltre, dovremmo tutti aver imparato ormai a non sottovalutare Trump. Anche Reagan era considerato un “pagliaccio” dall’establishment di politica estera. Una follia l’idea dello Scudo spaziale, da lui lanciata nel 1983, così come l’apertura del dialogo con Gorbachev. Si sa com’è finita. Attenzione, perché Trump non vede l’ora di dimostrare al mondo che la sua fama di “dealmaker” è meritata.

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