I timori del “liberale” Verhofstadt sulla Brexit rivelano un programma protezionista, il grande equivoco del Mercato Unico: integrato, ma non libero
Piaccia o no, la Brexit è la cartina al tornasole dell’Europa e dei veri programmi dei partiti politici europei. Prima di tutto, ha rivelato la vera natura dell’Unione europea: un mercato protetto che teme la concorrenza. Lo ha detto Guy Verhofstadt, il 18 settembre, senza troppi giri di parole.
Il rappresentante del Parlamento europeo nei negoziati Brexit, già presidente di Alde (il raggruppamento dei partiti e movimenti liberali e democratici europei), ha infatti dichiarato: “Questo Parlamento non accetterà mai un accordo con il Regno Unito in cui quest’ultimo può avere tutti i vantaggi del libero commercio, con tariffe zero, senza allinearsi ai nostri standard ecologici, sanitari, sociali e di sicurezza”. Si riferiva alla “minaccia” di una soluzione di libero mercato alla Brexit, dunque un accordo di libero scambio fra Regno Unito e Ue al di fuori della frontiera comune.
Ma a turbare il sonno degli europeisti è lo scenario della cosiddetta “Singapore sul Tamigi” o “Singapore nel Mare del Nord”. “Non accetteremo mai una Singapore nel Mare del Nord. Non succederà”, ha dichiarato Verhofstadt nello stesso discorso. Se l’Unione europea e il suo Mercato Unico fossero realmente uno spazio di libero scambio, la prospettiva di avere un mercato libero come quello di Singapore (una delle realtà più liberiste del mondo, stando all’Index of Economic Freedom) dall’altra parte della Manica, sarebbe letteralmente manna dal cielo. Benché non esista alcun progetto specifico con questo obiettivo, i conservatori più thatcheriani hanno sempre inteso l’uscita dall’Ue come un’opportunità di aprirsi al mercato mondiale, invece che restare chiusi in quello europeo. Come? Con gli strumenti messi a disposizione dall’esperienza della Thatcher: meno tasse e meno regole, più certezza nel rispetto dei contratti e stabilità monetaria. È difficile capire cosa ci sia di sbagliato in un modello che è alla base della crescita economica del Regno Unito degli anni ’80 e ’90, da “grande malato d’Europa” a nuova potenza finanziaria.
Le parole di Verhofstadt sono molto rivelatrici: “Non uccideremo le nostre imprese: difenderemo le nostre imprese, la nostra economia, il nostro mercato unico”, oltre al suo richiamo agli “standard ecologici, sanitari, sociali e di sicurezza”. Sono parole d’ordine di un programma protezionista. Proprio il leader “liberale” europeo, che dovrebbe tuonare contro la chiusura dei confini (e lo fa, quando a chiuderli è Donald Trump), si trasforma in un difensore dei muri contro la concorrenza economica. Dal suo punto di vista è coerente. Il Mercato Unico è infatti integrato, ma non libero. Il commercio è permesso, ma solo entro una serie di condizioni dettate dai governi europei, a loro volta condizionati da sindacati, gruppi politici e gruppi di pressione delle categorie produttive. Inoltre, la circolazione è libera, ma solo entro la frontiera comune europea, mentre fuori di essa torna il mercantilismo: tariffe e divieti di importazione.
Un sistema simile non è di libero scambio. Con buona pace di chi ritiene che l’Ue sia un “inferno liberista”, il Mercato Unico è corporativista, tipico degli Stati continentali, portato a livello sovranazionale. I governi europei si sono dimostrati ben poco propensi ad aprire questo sistema, sia al suo interno (ad esempio con tutti gli ostacoli opposti alla direttiva Bolkestein, che prevedeva la piena liberalizzazione dei servizi), sia al suo esterno (prova ne è la bocciatura, voluta da Francia e Germania soprattutto, del Trattato Trans-Atlantico sul commercio e gli investimenti, il Ttip).
Chi vuole uscire da questo sistema corporativista può essere mosso da un’ideologia ancor più statalista. È il caso del nuovo/vecchio Partito Laburista di Jeremy Corbyn. A cui va benissimo l’iper-regolamentazione europea (tanto è vero che vorrebbe mantenere il Regno Unito nell’unione doganale) e vorrebbe aggiungerne una ancor più rigida su scala nazionale. Ma poi ci sono anche coloro che vogliono uscire dal corporativismo europeo per liberarsene realmente. Ed è il caso di chi pensa ad uno scenario “Singapore sul Tamigi”. Questi sono i termini dello scontro: liberalismo contro corporativismo.
Ma siccome viviamo in un mondo alla rovescia, i “liberali” europei continentali, come Guy Verhofstadt, difendono a spada tratta il corporativismo. Basta saperlo. È un vecchio vizio del liberalismo continentale, quello di ritenere il mercato possibile solo “entro la cornice” delle regole dettate da uno Stato e il commercio internazionale solo “sotto” uno Stato sovranazionale. È la caratteristica che fa sì che liberali europei continentali e liberali classici anglosassoni parlino due lingue diverse.
Comunque, sulla convenienza o meno di un sistema corporativista europeo, è presto detto: non conviene a nessuno, tantomeno a chi ne fa parte. Il vantaggio storico della civiltà europea rispetto a tutte le altre, è proprio quello di non aver mai conosciuto un unico potere politico dominante. Dove nelle altre civiltà prevalevano grandi imperi centralizzati, in Europa, dal Medioevo in poi, gli imperi c’erano, ma estremamente frammentati al loro interno. Gli imperatori non hanno mai avuto l’ultima parola, il potere è stato sempre diviso tra feudi, comuni, repubbliche marinare, leghe e federazioni, signorie, sempre in dialogo con una Chiesa indipendente, dotata del primato morale ma non politico. Alla nascita degli Stati nazionali non è mai seguito un processo di unificazione continentale. A chi ci ha provato con la forza, da Luigi XIV a Hitler, passando per Napoleone, è sempre andata male. Questo è il pluralismo che ha reso grande l’Europa. Perderemmo un patrimonio millenario con l’unificazione politica, la standardizzazione delle regole, l’armonizzazione fiscale, che poi sono i veri obiettivi degli europeisti.