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L’inganno della “giustizia sociale”, vero e proprio instrumentum regni dello statalismo

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Ogni buon lettore di Friedrich von Hayek conosce i rischi fatali che corre la libertà personale ogniqualvolta un politico, intellettuale, giornalista o supposto artista pronuncia, una dietro l’altra, le due fatidiche parole “giustizia sociale”. Il grande economista e premio Nobel dissezionò il concetto, regalandocene la critica più efficace e illuminante nel suo memorabile “Mirage of Social Justice” e avvertendoci di come l’idea, diremmo proprio grazie alla propria indefinitezza, rappresentasse la più grande minaccia per la libertà. Vale la pena di riprenderne i punti salienti e, umilmente, come i proverbiali nani sulle spalle dei giganti, cercare di estendere la critica ai più recenti (ab)usi della nozione.

Il pensatore austriaco sferrò il suo attacco partendo da una constatazione tanto acuta quanto trascurata dai più: la giustizia è una caratteristica delle azioni individuali, dunque solo le situazioni create deliberatamente dalla volontà umana possono essere considerate giuste o ingiuste. Se ledo la libertà o la proprietà di qualcuno, sto compiendo un’azione ingiusta, come è (o dovrebbe essere) evidente a chiunque. Non si può e non si deve, invece, ricorrere al concetto di giustizia per uno stato di cose che non è stato prodotto volontariamente da nessuno: se migliaia di spettatori pagano il biglietto di un concerto rendendo ricco un cantante, non si può in alcun modo considerare la disparità di ricchezza che ne deriva come “ingiusta”, dato che è il frutto esclusivo di libere scelte. Potremo dire che le nostre preferenze personali ci spingono a desiderare una diversa distribuzione della ricchezza, ma certo non possiamo tirare in ballo l’ingiustizia.

L’uso della parola “giustizia” non è affatto innocente. Una cosa è dire che qualcosa non ci piace, altra cosa è impugnare l’idea di giustizia, che ha ben altra presa sulla nostra coscienza morale. Insomma, le parole contano, e molto. Hayek concludeva il suo ragionamento ammonendoci che il perseguimento dell’ideale di giustizia sociale è incompatibile con una società libera, dal momento che esso porta con sé la priorità concessa alla pretesa di alcuni individui alla erogazione di particolari beni e servizi da parte dello Stato, implicitamente mettendo in sordina (o comunque rendendo non prioritari, dunque secondari) i diritti di libertà dei singoli. Inoltre, il contenuto concreto del concetto è quanto di più fumoso si possa immaginare, dato che ognuno di noi potrebbe infilare dentro questo black box i propri più sfrenati sogni confiscatori, cosa che in effetti è talvolta avvenuta.

Difatti, oggigiorno il concetto è divenuto una sorta di abracadabra che spalanca le porte di qualsiasi pretesa e allo stesso tempo si presenta, nella mente dei progressisti di ogni latitudine, come la massima preoccupazione delle persone decenti, ossia loro stessi. Insomma, la giustizia sociale è nell’occhio di chi guarda: meschino, nel caso di chi non si prostra di fronte a visioni palingenetiche dell’intervento pubblico; generoso, invece, nel caso dei profeti della religione statolatra. Presupponendo nella sua stessa essenza l’intervento dello Stato, rende quest’ultimo il supremo agente morale e moralizzatore della società. L’idea di giustizia sociale, dunque, ben lungi dall’essere innocua, dicevamo, è il grimaldello per spalancare le porte a un intervento pubblico sempre più invasivo, il vero e proprio instrumentum regni dell’imperialismo statalista.

Siamo dunque di fronte a un concetto che viene usato al fine di colonizzare l’immaginario morale delle persone, con l’effetto ulteriore di promuovere e radicare la nozione dello Stato come forma suprema di società. Ne segue che, in quanto forma perfetta di società, lo Stato comprime e subordina le società naturali – famiglia, associazioni, comunità, etc. – che diventano pertanto corpi intermedi accessori e accettabili solo nella misura in cui collaborano (o quantomeno non si frappongono) al raggiungimento della perfezione sociale. La potenza evocativa nonché l’estrema elasticità del concetto ci fanno capire perché esso venga usato per le più disparate rivendicazioni, dal matrimonio omosessuale alla protezione del falco pellegrino.

Incappiamo nelle sue derivate più recenti ogni giorno, sfogliando il giornale: leggi contro l’hate speech, il diffondersi della cancel culture, e molto altro ancora; senza dire, ovviamente, delle proposte in campo economico e redistributivo. Tutte idee che subordinano l’espressione della libertà individuale (per quanto non sempre di nostro aggrado: ma questo dovrebbe essere pacifico) a valori che si suppongono più alti, maggiormente degni di considerazione. Concetti, questi, che si abbeverano alla stessa fonte della giustizia sociale: di qui l’idea che ci siano categorie di persone che devono essere protette dal mondo in cui vivono, non sufficientemente capaci di badare a sé stesse, e che pertanto vanno trattate come intrinsecamente deboli, al punto di essere accolte sotto una campana di vetro piuttosto che incoraggiate a coltivare quelle capacità che sono necessarie all’autonoma affermazione di sé.

La tendenza espansionistica di questo concetto proteiforme è, come si è detto, continua e illimitata: il passpartout preferito dal pianificatore sociale, l’”arma fine di mondo” di ogni buon costruttivista, che facendo appello ai sentimenti e alle buone intenzioni vuole vincere prima ancora di aver iniziato la partita, schiacciando qualsiasi “meschina” rivendicazione alla libertà individuale. Un passepartout privo di ogni contenuto concreto, fatto della stessa sostanza degli incubi.