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L’Inno di Mameli e le mani in tasca del presidente Fico, non degno del suo ruolo

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Il gesto e la posa che il presidente Fico in occasione della manifestazione #palermochiamaitalia allorquando ha risuonato l’inno nazionale sono semplicemente a dir poco vergognosi. Non già solo per lui e per chi lo ha votato ma anche per tutti gli italiani; oltre che, cosa a mio avviso ancora più grave, per i nostri defunti in nome della Patria: di un ideale patriottico. Mancare di rispetto alla Bandiera e all’Inno è mancare di rispetto all’Italia, agli italiani di ieri e di oggi. Nella stessa foto, curiosamente, vediamo il sindaco Leoluca Orlando, cioè non proprio il nazionalista di turno, mettersi addirittura la mano al petto. Se questo gesto in Italia non siamo soliti farlo, perché non è nostra effettiva usanza, a differenza degli americani, i quali hanno nel patriottismo uno dei valori fondanti la loro società e la loro politica, è però una mancanza di rispetto istituzionale e del galateo cerimoniale verso l’Inno, ma anche la bandiera, vergognosamente oscena. Otto von Bismarck con un velo d’ironia piccata ammoniva: “Anche in una dichiarazione di guerra si devono osservare le regole della buona educazione”. Per amor di Patria non mi soffermo sulle dichiarazioni di Fico, al termine della manifestazione, sarebbe davvero sparare sulla Croce Rossa, affronterò quindi il tema in modo diverso: ricordando com’è nato il nostro Inno per ritornare al presente.

Giovane e affascinato dal sogno dell’unità nazionale, il musicista genovese Michele Novaro riceve il testo del Canto degli Italiani una sera del novembre 1847, mentre si trovava a Torino, con un contratto di secondo tenore e maestro dei cori dei Teatri Regio e Carignano, con l’invito da parte di Mameli di dare una musica alle sue parole. Novaro legge il manoscritto, si siede al pianoforte e mette sul pentagramma le sue suggestioni. Immagina 24 milioni d’italiani su una grande pianura; improvvisamente echeggiano dei rulli di tamburo; cui seguono degli squilli di tromba; ancora rulli di tamburo e squilli di tromba; gli sguardi vanno verso una figura maestosa su un trono, è Papa Pio IX che alza le braccia per annunciare le parole fatali, l’attesa è sottolineata da un raccordo da suonarsi con “vibrato”. Ecco il proclama cantato forte con molta energia per convincer 24 milioni di persone a prendere le armi e a conquistare la libertà; l’annuncio finisce, quattro battute musicali rappresentano il fremito del popolo. Gli italiani sono increduli e impauriti ripetono le parole ascoltate; qui la dinamica musicale è “piano e concitato”; il finale accelerato in crescendo sta significare che la paura è passata. Al termine del cantato Novaro aggiunge una sola sillaba: sì! È la promessa che italiani combatterono fino alla morte. L’immediatezza dei versi e l’impeto della melodia ne fecero uno dei canti più amati dell’unificazione risorgimentale.

“[…] Mi posi al cembalo, coi versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo, assassinavo colle dita convulse quel povero strumento, sempre cogli occhi all’inno, mettendo giù frasi melodiche, l’un sull’altra, ma lungi le mille miglia dall’idea che potessero adattarsi a quelle parole. Mi alzai scontento di me; mi trattenni ancora un po’ in casa Valerio, ma sempre con quei versi davanti agli occhi della mente. Vidi che non c’era rimedio, presi congedo e corsi a casa. Là, senza neppure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte. Mi tornò alla memoria il motivo strimpellato in casa Valerio: lo scrissi su d’un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani: nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo e, per conseguenza, anche sul povero foglio; fu questo l’originale dell’inno Fratelli d’Italia […]”. Michele Novaro

“[…] Fu composto l’otto settembre del quarantasette, all’occasione di un primo moto di Genova per le riforme e la guardia civica; e fu ben presto l’inno d’Italia, l’inno dell’unione e dell’indipendenza, che risonò per tutte le terre e in tutti i campi di battaglia della penisola nel 1848 e 1849 […]”. Giosuè Carducci

Nell’Assemblea costituente del secondo dopoguerra per la scelta dell’inno nazionale si aprì un dibattito che individuò, tra le opzioni possibili: il Va, pensiero, dal Nabucco di Verdi, la stesura di un brano musicale completamente nuovo, il Canto degli Italiani, l’Inno di Garibaldi e la conferma della Canzone del Piave, che il governo Badoglio aveva scelto quale inno del “Regno del Sud Italia”. La classe politica dell’epoca approvò la proposta del ministro della guerra Cipriano Facchinetti, che prevedeva l’adozione del Canto degli Italiani come inno provvisorio, de facto, dello Stato. La Canzone del Piave ebbe quindi la funzione di inno nazionale della Repubblica Italiana fino al Consiglio dei Ministri del 12 ottobre 1946, quando Cipriano Facchinetti, di credo politico repubblicano, dunque “mazziniano”, comunicò ufficialmente che durante il giuramento delle Forze Armate del 4 novembre, quale inno provvisorio, si sarebbe adottato il Canto degli Italiani. Il comunicato stampa recitava che:

“[…] Su proposta del Ministero della Guerra si è stabilito che il giuramento delle Forze Armate alla Repubblica e al suo Capo si effettui il 4 novembre prossimo venturo e che, provvisoriamente, si adotti come inno nazionale l’inno di Mameli […]”. Cipriano Facchinetti

Facchinetti dichiarò, altresì, che si sarebbe proposto uno schema di decreto che avrebbe confermato il Canto degli Italiani quale inno nazionale provvisorio della neonata Repubblica, intenzione che, però, non ebbe seguito. Il consenso sulla scelta del Canto degli Italiani non fu unanime: dalle colonne de l’Unità, quotidiano del Partito Comunista Italiano, fu proposto, come brano musicale nazionale, l’Inno di Garibaldi. La sinistra italiana considerava infatti, quale figura di spicco rappresentativa del Risorgimento, Garibaldi e non Mazzini, che era reputato di secondo piano rispetto all’eroe dei due mondi.

In realtà come sappiamo prevalse la scelta di conservare come inno nazionale Fratelli d’Italia in una riconnessione tra gli ideali del Risorgimento e la nascente Repubblica, inno che rimase, de facto, fino ai giorni nostri. Si deve al presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, all’inizio del XXI secolo, una più attenta ed energica opera di valorizzazione e di rilancio del Canto degli Italiani come uno dei simboli dell’identità nazionale. Infatti in riferimento al Canto degli Italiani, Ciampi dichiarò che: “[…] È un inno che, quando lo ascolti sull’attenti, ti fa vibrare dentro; è un canto di libertà di un popolo che, unito, risorge dopo secoli di divisioni, di umiliazioni […]”.

Le varie iniziative parlamentari che si sono susseguite per rendere l’Inno di Mameli inno nazionale ufficiale, hanno trovato la giusta e meritata consacrazione con la promulgazione della legge del 4 dicembre 2017, che ha dato al Canto degli Italiani lo status di “Inno nazionale de iure”.

Rendere omaggio oggi a Goffredo Mameli e a Michele Novaro, ovverosia alla Bandiera e all’Inno, significa consolidare la storia, tenendone vivo il fuoco, del glorioso percorso dell’unificazione del nostro Paese e del consolidamento dello stato democratico. È soprattutto ai giovani che si rivolge il messaggio ricco di idealità del loro inno: mantenere un filo diretto con la storia del nostro Paese rappresenta il miglior bagaglio di esperienza per assolvere, con accresciuta consapevolezza, al ruolo cui è chiamata l’Italia nell’Europa di oggi e di domani.

Ma perché dunque l’inno di Novaro riuscì e quello di Verdi no? La risposta è presto detta: non bisogna mai applicare i normali criteri coi quali si giudica un’opera d’arte. Nel caso degli inni nazionali infatti lo scopo è uno solo: quello di aggregare una collettività attorno a un’idea. Il come questo accada è secondario se non indifferente. “Suoni la tromba” di Verdi, commissionatogli da Mazzini su testo di Mameli, durò venti giorni, un mese, poi sparì dalla memoria collettiva. Il Popolo è l’unica fonte di legittimazione di un inno nazionale; “Suoni la tromba” non ha funzionato. Novaro invece trovò la giusta e sublime alchimia, quella indescrivibile magia che hanno reso il suo Inno semplicemente perfetto.

La frase del presidente Ciampi è emblematica di quale potenza indescrivibile si celi nel Canto degli Italiani: il presidente Fico ha mancato di rispetto all’Inno, alla Bandiera e ai morti per la Patria – essi infatti rivivono in quella Bandiera e in quell’Inno per i quali hanno dato la vita – palesando una posizione di chiaro “menefreghismo annoiato”, arrivando a mettere le mani in tasca. Se arriveremo a perdere anche il decoro nazionale delle nostre istituzioni saremo proprio una “Patria sì bella e perduta”. Forse non ci dobbiamo così tanto stupire, già Giacomo Leopardi ci aveva messo in guardia:

“Dove il buon tuono della società non v’è o non si cura, quivi la morale manca d’ogni fondamento e la società d’ogni vincolo, fuor della forza, la quale non potrà mai né produrre i buoni costumi né bandire o tener lontani i cattivi”.

Dunque il processo di progressiva distruzione dei pilastri del Paese è inevitabile finché questi inetti “cittadini” saranno nelle aule parlamentari e fin tanto che avremo Fico come presidente della Camera dei Deputati (carica avuta da Saragat, Terracini, Pertini, Ingrao e tanti altri). Molti di costoro magari non ci vanno così tanto a genio, diciamo, nondimeno sul loro garbo istituzionale non si può metter verbo. Altro che “Onestà, onestà!”, cari cittadini-5stelle: “Indegnità, indegnità!”.

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