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L’ideologia del politicamente corretto e i dogmi del neoprogressismo: intervista a Eugenio Capozzi

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Eugenio Capozzi è ordinario di storia contemporanea all’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa. È autore di diversi volumi: “Il sogno di una Costituzione” (2008), “Partitocrazia” (2009), “Storia dell’Italia moderata” (2016). Lo scorso 29 novembre è uscito il suo ultimo saggio, “Politicamente corretto, storia di un’ideologia”. Un volume prezioso che, grazie ad una rigorosa ricostruzione storica, permette di comprendere le origini, l’avvento e la pervasività del politicamente corretto.

MARTINO LOIACONO: Professore, lei ha definito il politicamente corretto come l’espressione di un’ideologia: di cosa si tratta?

EUGENIO CAPOZZI: Il politicamente corretto è l’espressione retorico-precettistica del neoprogressismo, cioè l’ultima delle ideologie, che possiamo anche chiamare, come lo ha definito Mathieu Bock-Coté, “utopia diversitaria”, “culto dell’altro”. È un’ideologia simile a quelle ottocentesche e novecentesche. Essa si afferma con il tramonto di fascismo e nazismo e con la crisi del modello comunista sovietico, su cui si innestano i valori e le idee portate dai baby-boomers. Il neoprogressismo non si fonda su premesse politiche ed economiche ma su un obiettivo culturale: cambiare la cultura delle società occidentali, perché strutturalmente imperniata sulla discriminazione, sulla disuguaglianza e sull’imperialismo. Il suo obiettivo è sradicare questa malapianta che albergherebbe nella nostra cultura. Il tutto per tornare ad una condizione di naturale armonia, per riguadagnare l’Eden. Tale armonia non si basa però su un principio forte di definizione razionale della natura umana, ma su un totale relativismo. Tutte le idee, tutte le culture, tutti gli stili di vita sono equivalenti. È una ribellione relativistica contro la storia occidentale, vissuta come violenza e stupro ai danni delle diversità.

ML: Quali sono i dogmi di quello che lei ha definito catechismo civile?
EC: Il neoprogressismo presenta in sintesi quattro dogmi. Il primo è il relativismo culturale, per cui tutte le culture, tutti i costumi e tutte le religioni hanno uguale valore e devono essere considerati sullo stesso piano. Esso si afferma con la deriva relativistica dell’antropologia culturale e con gli studi legati alla decolonizzazione, e si evolve successivamente in multiculturalismo, cioè l’idea per cui culture diverse devono convivere negli stessi spazi e si devono integrare. Questo significa che non esiste una centralità storica della cultura occidentale nella definizione e nella dignità della persona umana. Il secondo è l’equivalenza tra desideri e diritti. Questa tendenza si afferma tra gli anni Sessanta e Settanta. In questa prospettiva ogni desiderio è lecito e anzi addirittura sacro, e ogni tipo di repressione è sbagliata (vietato vietare). È un’interpretazione edonistica e radicale di Freud e anche di Marcuse. Il soggetto umano viene ridotto alla pura pulsione e alla sua funzione desiderante. Queste tendenze si traducono in un’esplosione di conflittualità, perché non ci sono limiti ai desideri, alla loro contraddittorietà e alla loro continua mutevolezza. Il terzo è che l’uomo non è necessario: l’umanità non ha funzione gerarchicamente prevalente nella natura e nell’ambiente. È un elemento tra i tanti dell’equilibrio ambientale ma non è il fine principale. Il quarto è il legame strutturale che viene istituito tra identità e autodeterminazione. I diritti non si fondano su una concezione dell’essere umano universalmente condivisa, ma sull’appartenenza a gruppi e a condizioni di vita che in quanto tali devono essere tutelati. Queste condizioni non sono considerate qualcosa di naturale, ma sono frutto di una scelta soggettiva. Quest’ultimo dogma si sintetizza con l’espressione “voglio dunque sono”.

ML: Come funziona la logica del politicamente corretto?
EC: L’ideologia politicalcorrettista parte dal rifiuto del conflitto e dalla centralità della retorica. Per cambiare le persone bisogna cambiare le loro menti e per farlo occorre modificare le parole, coniarne di nuove e utilizzare termini non offensivi. Proprio sul concetto di offesa si basa la censura. Ogni posizione che si discosta dal relativismo è ritenuta violenza. Ogni affermazione di gerarchia di valori, ogni tentativo di fondare un discorso di tipo universalistico vengono considerati offensivi nei confronti del culto del diversitarismo. Chi propone idee contrarie al neoprogressismo viene così emarginato di modo che non possa parlare. Proprio da qui nasce l’intolleranza particolarmente percepibile nei cultori del politicamente corretto. Insomma, il tentativo di passare dal soggettivismo all’oggettivismo viene bollato come offesa. L’unica dottrina universale deve essere il relativismo radicale. Questo, tuttavia, impedisce al neoprogressismo di produrre un canone razionale universalmente condivisibile, e da qui il conflitto passa sul piano emotivo. Se si sollevano questioni sull’immigrazione incontrollata, ad esempio, il discorso politicamente corretto non risponde con argomenti razionali o pragmatici, ma definendo direttamente i suoi oppositori cattivi o razzisti.

ML: In che modo il politicamente corretto è riuscito ad ottenere l’egemonia mediatica?
EC: Per capirlo è necessario guardare alla sua radice economica. Il politicamente corretto esprime gli interessi di classe della borghesia della conoscenza, quella borghesia che si afferma con i baby-boomers. Non è più una borghesia legata all’industria fordista o alla proprietà fondiaria. Basti pensare all’industria hi-tech e a personaggi come Steve Jobs o Bill Gates e a Zuckerberg, che potrebbe essere considerato un nipote dei baby-boomers e della “controcultura”. Questa borghesia si inserisce nei ruoli dirigenti delle organizzazioni internazionali e nel sistema globalizzato dei media e dei social media. Da qui deriva il monopolio sul mondo della cultura, della comunicazione e sull’università. A tale borghesia, ovviamente, appartengono anche in massima parte le classi politiche occidentali, in particolare nell’ultimo trentennio.

ML: Il senso di colpa è una costante del politically correct: di cosa sarebbe colpevole l’Occidente?
EC: Il neoprogressismo è un’ideologia che non mette sotto accusa una classe sociale o il capitalismo o altri nemici socioeconomici come le ideologie tradizionali, ma la storia e la cultura occidentale in quanto tali. Da qui derivano due conseguenze: essere maschi occidentali bianchi è di per sé una colpa, da cui bisogna riscattarsi mostrandosi buoni scolari della dottrina politicalcorrettista. Ma non ci si riscatta mai del tutto. La seconda è che l’Altro è sempre su un piano superiore ed è eticamente preferibile. Si tratta di allofilia: le culture extraeuropee, le religioni non cristiane, l’islam, e la galassia LGBTQ sono eticamente meglio. Tutto ciò che appartiene al canone occidentale è male, in questo senso si può parlare anche di autofobia.

ML: Da queste considerazioni arriviamo al culto della figura del migrante…
EC: Il culto del migrante, brandito come feticcio, è la conseguenza logica del multiculturalismo. L’ideologia diversitaria implica che l’ideale politico sommo sia quello di un mondo in cui le identità siano confuse, in un’umanità neutra. Dalla convivenza tra i popoli si dovrebbe passare, secondo questa ideologia, ad una mescolanza totale, in un mondo in cui le specificità culturali sono irrilevanti. Tale utopia ha condotto a risultati opposti. Più si mettono insieme culture diverse, più si punta all’interculturalità, più emergono conflitti di civiltà. Le comunità che vivono nello stesso spazio si chiudono al loro interno. Ovviamente il politicamente corretto ha addebitato queste tensioni alla volontà assimilatrice del mondo occidentale. In realtà esse sono frutto invece proprio del relativismo, perché senza un’etica che attrae le altre la convivenza diventa uno scontro insuperabile. Il problema è particolarmente evidente con gli immigrati africani e con quelli di religione islamica, la cui volontà di assimilazione è assente o molto ridotta. Da qui derivano i problemi di ordine pubblico che ben conosciamo.

ML: Considerata la forza del politicamente corretto, come è spiegabile la sua messa in discussione?
EC: Il politicamente corretto inizia la sua crisi quando la globalizzazione fa sentire i suoi effetti negativi. Quando, cioè, per via delle delocalizzazioni e della digitalizzazione dell’economia si assiste alla proletarizzazione dei ceti medi e alla crisi della classe operaia. Tuttavia la sua retorica è ancora forte, anche se ha trovato degli antagonisti che cominciano ad opporsi con energia alle sue istanze. In ogni caso, anche se queste forze dovessero prevalere, l’Occidente ne uscirà indebolito. Indebolito nella sua identità, per la crisi demografica e per il suo peso ridotto nello scacchiere politico internazionale.

ML: Alla luce di tutto ciò come si sono ridefiniti i sistemi politici?
EC: I sistemi politici, a partire dalla crisi economica del 2007-2008, registrano la crescita di movimenti culturali e politici che si schierano contro la dittatura del politicamente corretto. È la ribellione del populismo, del sovranismo e anche dell’antipolitica, che ha radici profonde ma che ora esplode contro il blocco sociale, politico e culturale post-baby boomers. Da qui si ridefinisce il conflitto politico: dall’asse destra/sinistra, individualismo/collettivismo si passa alla frattura tra globalismo e antiglobalismo, tra élite e popolo e tra classi dirigenti transnazionali e nazionali.

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