Passano i lockdown, passano le settimane e Conte è sempre intento a vendere fumo. Sono molti i motivi per dubitare che la bozza di decreto (che Repubblica definisce “un amuleto”) possa bastare per impietosire i partner europei. Un accordo lo troveranno pure, ma niente nuove risorse nette. Anzi, di soldi ce ne saranno anche meno di adesso. La prima domanda che gli europei si pongono non è come Roma spenderà i fondi del Recovery Fund e se li saprà spendere, bensì se saprà raccogliere i fondi che dovrà versare al Recovery Fund. La soluzione di Gentiloni è la trappola-Mes: l’accesso al Mes-Sanitario per farsi traghettare nel Full-Mes. Una possibile alternativa passa da Karlsruhe (e da Weidmann)
I tre papelli di Conte – Passano i lockdown, passano le settimane e il premier Giuseppe Conte è sempre intento a vendere fumo. Ultimamente in forma di futuribili grandi investimenti in reti di trasporto stradale, ferroviario, opere idriche, una lista dei quali verrà forse inserita nel ‘decreto semplificazione’ giunto lunedì sera in Consiglio dei ministri, discusso in seduta fiume e, nonostante le preghiere di Conte, approvato ‘salvo intese’, cioè rinviato ad approvazione parlamentare plausibilmente non prima dell’autunno. Sino ad allora toccherà aspettare, per sapere se si concretizzeranno il ‘modello Genova’ (osteggiato dal Pd), la riforma dell’abuso d’ufficio e della responsabilità erariale (osteggiata dai 5 Stelle), nonché le ulteriori accelerazioni per gli investimenti in banda larga e 5G e per gli interventi ‘green’. Non depone a favore di Conte la tragicommedia della consegna del ponte di Genova ad Autostrade, voluta dal ministro del Pd e da Conte in base alla concessione in essere e respinta dal 5 Stelle a prescindere… senza che lo stesso 5 Stelle abbia avuto a spiegare a chi altro il ponte andrebbe consegnato.
Senza contare che la lista ‘salvo intese’ presenta pochi contatti con quanto indicato dal potentissimo Wolfgang Schäuble, lunedì sulla FAZ (investimenti in digitale ed idrogeno continentali, aveva detto quello), dal ministro delle finanze tedesco Scholz (che vuole pure dedicare il bilancio Ue vero e proprio alla “trasformazione digitale e rispettosa del clima”), nonché dal ministro lussemburghese Gramegna (“occorre vigilare acciocché i progetti finanziati da questo piano abbiano anche un carattere transfrontaliero e transnazionale e che integrino obiettivi ecologici e digitali europei”). Tutti motivi per dubitare che la bozza di decreto (La Repubblica la definisce “un amuleto”) possa bastare a Conte per impietosire gli Europei. Il che dovrebbe accadere al vertice del 17-18 luglio a Bruxelles, ovvero dopo l’estate, come scrive Münchau, e sempre che i guastatori olandesi cessino di guadagnare tempo in attesa di una ripresa economica nel Nord Europa, che taglierebbe le gambe all’intero progetto, aggredendo Paesi di Visegrad e Mediterranei contemporaneamente, cioè pretendendo che i fondi siano condizionati al rispetto dello “stato di diritto” e “riforme macroeconomiche” rispettivamente. Un accordo lo troveranno pure, ma con potere di spesa assegnato al Consiglio (quindi con potere di veto alla Germania insieme all’Olanda ed altri due ‘frugali’) come da ultima proposta tedesca, nonché a saldo zero (l’Italia tanto prende, tanto dà) e magari pure in cambio di un saldo italiano generosamente negativo sul bilancio europeo pluriennale (da approvarsi unitamente al Recovery Fund). Ergo, niente nuove risorse nette.
Dal Cdm è passato pure un ‘Pnr-Piano nazionale delle riforme’, apparentemente “bozza del Piano nazionale di riforma, in cui si elencano gli obiettivi del Programma di Ripresa e Resilienza (Recovery Plan) da presentare alla Commissione europea”; ma invero contenente riferimenti che spaziano dall’alleggerimento della pressione fiscale al salario minimo ai voucher per le famiglie: tutta roba che Bruxelles mai e poi mai finanzierebbe col Recovery Fund. Una sarabanda che culmina in impegno vertiginoso: un saldo primario superiore a quello record del 2019, per il quale servirebbero almeno 30 miliardi di maggiori entrate o minore spesa, proseguito in un orizzonte decennale, da ottenersi tramite: una nuova spending review, un riordino profondo delle spese fiscali, il taglio dei sussidi ‘ambientalmente dannosi’, nonché grazie ai “frutti” degli investimenti finanziati con le “imponenti” risorse europee… garantite dal decreto ‘salvo intesa’ di cui sopra. Con una chiosa (“le notevoli risorse che l’Unione europea ha messo in campo devono essere utilizzate al meglio”) che lascia il lettore nel dubbio che il ministro Gualtieri abbia perso il senno. Ergo, non ci sono i soldi.
Il terzo documento passato dal Cdm è il ‘Rendiconto dello Stato’ (o assestamento di bilancio di metà anno) e qui il tono passa al tragico: il Tesoro stima minori entrate per 50 miliardi e maggiori spese per 172 miliardi, il tutto finanziato con maggiori emissioni di debito pubblico per 250 miliardi rispetto a quanto originariamente previsto. Ad una economia che scende del 11,2 per cento quest’anno (la peggiore in Europa) e recupera il 6,1 per cento l’anno venturo, mancherà sempre un 5,8 per cento circa, quindi, visto che la spesa pubblica è indicativamente la metà del Pil, il governo dovrà aumentare tasse o tagliare spesa per un bel 3 per cento del Pil almeno. Sul punto, chiarissima l’elezione del candidato irlandese sostenuto dall’Olanda alla presidenza dell’Eurogruppo, nonché chiarissimi Scholz (“nei prossimi sei mesi discuteremo di come gestire l’onere di questa crisi in modo responsabile ed equo nei nostri rispettivi bilanci nazionali”) e Gramegna (“bisogna rimanere molto prudenti nella gestione delle finanze pubbliche”), a fronte della debole resistenza di Gentiloni (“servirà un ritorno ai livelli di Pil pre-crisi”). Con quali effetti recessivi su un’economica ove il 38,8 per cento delle imprese è già a rischio chiusura, è facile intuire: basta pensare alla manovra Monti con la sua spirale recessiva dove la politica fiscale aggrava la recessione e ne è a sua volta alimentata. Ergo, di soldi ce ne saranno anche meno di adesso.
Abbastanza per pensare che la prima domanda che gli Europei si pongono, non sia come Roma spenderà i fondi del Recovery Fund e se li saprà spendere, bensì se saprà raccogliere i fondi che dovrà versare al Recovery Fund. Le due grandezze essendo plausibilmente equivalenti, ancorché separate dal periodo di pre-ammortamento. A ciò immaginiamo si riferisse il commissario Gentiloni, quando diceva alla Commissione Politiche europee di Montecitorio che, per Roma, “sarebbe difficile avere un ruolo negoziale efficace” senza un impegno chiaro sul debito. D’altronde, nei panni del governo olandese, come entrare nel Recovery Fund, senza sapere prima chi garantirà la quota di versamenti italiana?
Il papello di Gentiloni – Gentiloni una soluzione l’avrebbe, e l’avrebbe pure indicata alla Camera, con il nome in codice “Mes senza condizionalità” [sic]. Concetto ripetuto da Gualtieri e dal segretario generale del Mes, Nicola Giammarioli: “Con le nuove linee di credito il Mes non può imporre alcun genere di condizionalità ex post, austerity, Troika, taglio delle pensioni o del settore pubblico”. Peccato sia una bufala, alla quale si è dedicato il direttore del Max Planck Institute di Colonia, Lucio Baccaro: il Consiglio del Mes può “decidere, a maggioranza qualificata, che siano necessarie misure più drastiche, compreso un programma di aggiustamento macroeconomico”, cioè la Troika; chiosa il leghista Bagnai, “i trattati e i regolamenti non sono stati emendati”. Controbatte il piddino Ceccanti che “trattandosi di accordo bilaterale, esso non appare poi suscettibile di revisione unilaterale”, ignaro che le basi legali del Mes-Sanitario sono le stesse di prima, ad esempio le linee guida che continuano imperterrite a recitare: “Il Consiglio direttivo decide… se la linea di credito continua ad essere adeguata o se è necessaria un’altra forma di assistenza finanziaria”.
Vero è che la maggioranza qualificata richiede il voto dell’Italia ma, continua Baccaro, “la pressione politica diverrebbe molto forte, si moltiplicherebbero gli appelli ‘a fare presto’, e sarebbe molto difficile per il governo italiano, vecchio o nuovo che sia, ignorare l’invito”. Vero è che lo stesso Gentiloni ha scritto una lettera in cui dichiarava di intendere come sospesa l’applicazione di alcune parti del regolamento, “tuttavia, il regolamento non è stato emendato”; chiosa il grillino Castaldo, “è una dichiarazione di intenti politica che non ha valore giuridico vincolante… Se i partner europei avessero voluto uno strumento nuovo avrebbero potuto disattivare pienamente i regolamenti e cambiare il trattato”. Invero, i ‘partner europei’ (ultimo il ministro Scholz) stanno sì pensando di cambiare il trattato, ma in senso inverso: riprendendo il processo di approvazione (interrotto solo dal Covid, come ha meritoriamente dimostrato Grizzuti su La Verità) di quel Nuovo Trattato Mes che renderebbe l’aggiustamento macroeconomico da imporsi all’Italia addirittura più certo.
Quale il fine della bufala? Dal punto di vista dei Gentiloni, usare l’accesso al Mes-Sanitario per farsi traghettare nel Full-Mes e lì accedere al programma OMT, ovvero al programma inventato da Draghi e mai messo in atto; come se il Commissario ignorasse che lo OMT è limitato, dunque inutile. Dal punto di vista degli Europei, far sì che il collasso delle finanze pubbliche italiane “sia inquadrato nelle regole esistenti in modo da minimizzare i rischi per la zona euro”, scrive Baccaro. Il quale comprende che, chiamando la Troika, i Gentiloni scomparirebbero dalla scena politica, anche se non giunge a descriverne le estreme conseguenze, queste: i tedeschi (facendosi forza del proprio veto all’interno del Mes) si opporrebbero al coinvolgimento di Bce, dunque provvederebbero acché la Troika giunga in Italia senza soldi ma armata del potere di imporle una mega-patrimoniale, al fine di imporle intanto il controllo sui movimenti dei capitali. I Gentiloni, insomma, sembrerebbero in trappola.
Il papello di Weidmann – Alternative? Una. Che la vicenda apertasi a Karlsruhe il 5 maggio si concluda con l’uscita di Bundesbank dal PSPP, cioè dal QE. Lì, la situazione è in evoluzione. Bce inviava al governo tedesco ed al Bundestag i 50 chilogrammi di documenti attesi. Il ministro delle finanze Scholz scriveva al Bundestag che a lui vanno bene, anche se poi, curiosamente, in una lettera a Le Monde dimenticava di citare Bce fra gli attori che hanno contrastato la crisi finanziaria del Covid. Il Bundestag dava atto, con l’intenzione di: dimostrare a Bruxelles e Francoforte la propria fedeltà alla legge fondamentale tedesca, eseguire il compito assegnatogli da Karlsruhe di darsi da fare per ottenere le carte da Bce, consentire a Bundesbank di prendere lei la decisione se continuare gli acquisti oppure no. Con le parole particolarmente lucide di un deputato del partito di Merkel, tal Andreas Jung: “La Bundesbank, alla luce di questi documenti e alla luce della sentenza della Corte costituzionale federale, deve decidere se la Bundesbank continua a partecipare al programma PSPP. La decisione è presa lì”. Peraltro, pochi giorni prima, il giudice Huber, relatore della sentenza, aveva specificato: “La Bundesbank deve determinare, sotto la propria responsabilità, se il ragionamento di Bce soddisfa o meno i nostri requisiti”.
Nel frattempo, Lagarde e Schnabel rilasciano due interviste per far sapere che la crisi è stata “brutale”, ma che sta allentandosi, tranne che nei Paesi più colpiti (Italia e Spagna vengono esplicitamente indicati) che verrebbero affidati… al Recovery Fund. Ancora poco per segnalare una eventuale resa di Bce francese, tanto più che colpita è pure la Francia, la quale non sapremmo dire come potrebbe sopravvivere all’esaudimento della pretesa di Bundesbank che Bce abortisca PSPP e PEPP e per la quale Weidmann ha fatto sapere di voler dar battaglia alle prossime riunioni del Consiglio direttivo il 16 e 29 luglio. Ma non si sa mai. Schnabel, in particolare, si inganna quando dice che in Germania “many acknowledge and appreciate what the ECB is doing in the current crisis” e quando dice che la partita di Karlsruhe è chiusa.
La partita è aperta e la palla è a Weidmann. Egli ha tre alternative: può rinnegare se stesso dicendo le stesse cose di Scholz e non eseguire la sentenza; può dire il contrario di Scholz ed eseguire la sentenza; può dire il contrario di Scholz ma lo stesso non eseguire la sentenza. [1] Al primo caso non crediamo, sarebbe troppo infamante per Weidmann e Bundesbank tutta, visto il loro giudizio infiammatorio riguardo i programmi di acquisto di Bce, ripetuto per un decennio e del quale abbiamo detto su Atlantico, peraltro ripetuto nel verbale del Consiglio direttivo Bce del 4 giugno 2020, quello che i “i deputati del Bundestag, indicano come nucleo dei documenti forniti da Bce”. [2] Il secondo caso taglierebbe finalmente la testa al toro, ma forse è troppo sperare. [3] Nel terzo caso, Bundesbank emetterebbe un cosiddetto ‘provvedimento a motivazione suicida’, fatto per essere rovesciato in sede di giudizio di ottemperanza; perché i ricorrenti che hanno già vinto il processo e solo loro possono rivolgersi di nuovo a Karlsruhe, che assumerebbe la decisione definitiva (l’intervista di Huber viene anzi giudicata un invito a farlo). Un eurodeputato del partito della Merkel, apparentemente ben informato, sembra dar per scontato che a tale giudizio di ottemperanza si arriverà. Lì finalmente potremo leggere tutte le carte: i documenti in parte segreti di Bce, Scholz ha indicato di volerli inviare a Karlsruhe, nonostante Bce li abbia rilasciati per visione esclusiva del governo tedesco e del Bundestag, ma tant’è Karlsruhe potrebbe comunque chiederne l’acquisizione; la prossima decisione di Bundesbank, il Financial Times scrive che potrebbe non essere resa pubblica (immaginiamo nelle sue motivazioni), ma dobbiamo dire che non sarebbe un problema per i ricorrenti chiederne l’acquisizione e per Karlsruhe ottenerla. Del fatto che il pronunciamento finale della Corte verrebbe obbedito, possiamo dirci certi, alla luce delle più recenti dichiarazioni tanto di Merkel, quanto di Schäuble.
Cosa deciderebbe la Corte, ciascun lo ignora. Se decidesse di impedire a Bundesbank di proseguire, non vi sarebbe più il rischio che Bce francese torni ad essere Bce tedesca, dunque per il Btp si aprirebbe l’opportunità della monetizzazione, cioè della salvezza. Al contrario, se decidesse di ordinare a Bundesbank di proseguire, per il Btp comincerebbero i guai: sarebbe il segno che un modo di far sopravvivere la Francia senza PSPP e PEPP è stato trovato, PSPP e PEPP senza i quali (in regime di libera circolazione dei capitali) il debito italiano è francamente insostenibile. In entrambe i casi, nella più assoluta indifferenza circa il destino del Recovery Fund.