È strano constatare quanto scarsa sia, in Italia, la preoccupazione per le conseguenze economiche – potenzialmente devastanti – del lockdown pressoché totale adottato dal governo. Un intero Paese in apnea, rinchiuso tra le mura domestiche, con la stragrande maggioranza delle attività produttive bloccate. E, lo si noti, senza neppure sapere se la serrata nazionale è davvero così utile e necessaria per debellare il coronavirus.
Diciamolo con franchezza. Abbiamo seguito con ben pochi dubbi ed esitazioni il modello cinese, entusiasti dei risultati eclatanti sbandierati dal governo di Pechino a Wuhan e nell’Hubei. Eppure, si sa che i regimi autoritari di ogni colore amano ricorrere alle notizie false e alla propaganda per vantare successi che non ci sono.
I dubbi circa la strategia cinese stanno crescendo, giacché indizi molto concreti fanno capire che il numero dei decessi a Wuhan è di molto superiore a quello ufficiale. Si registrano pure, nonostante la censura onnipresente, scontri tra polizia e cittadini esasperati dalle bugie governative. Ma resta il fatto che, nella terribile classifica mondiale dei morti, la Cina riesce a piazzarsi dopo Stati Uniti e Italia, nazioni dove censura e controllo dei mezzi d’informazione sono assenti.
Un successo d’immagine, senza dubbio, a maggior gloria del Partito comunista e pagato sulla propria pelle dai cittadini della Repubblica Popolare. Siamo così sicuri di aver adottato la strategia vincente da trascurare i casi di altri Paesi che hanno invece pensato di impostare in modo diverso il rapporto, certamente problematico, tra salute ed economia.
La Svezia, per esempio, ha deciso di non chiudere totalmente poiché, secondo molti economisti, la cura rischia di essere peggiore della malattia, producendo disoccupazione difficile da recuperare, disordini sociali e violenza. Non si tratta tanto di privilegiare la salute dell’economia rispetto a quella delle persone quanto, piuttosto, di impedire che il blocco prolungato di ogni attività produttiva causi un default dal quale sarà quasi impossibile riemergere.
Negli Stati Uniti il tanto criticato Donald Trump sta cercando di evitare il blocco economico anche costringendo alcune industrie a riconvertirsi almeno temporaneamente, producendo respiratori e altri strumenti indispensabili nella lotta contro il virus. Ciò per evitare che il blocco delle industrie si trasformi in una serrata difficilmente recuperabile quando la pandemia avrà perso la sua forza.
In Italia, del “dopo”, si parla poco. Chi pagherà gli stipendi ai lavoratori rimasti a casa? E chi pagherà le pensioni, visto l’allarme sollevato dagli stessi vertici dell’Inps? In questi casi, nel nostro Paese, la risposta è sempre la stessa. Paga lo Stato, ovviamente, come se si trattasse di un’entità metafisica e non di noi stessi che ne facciamo parte.
Eppure, per pagare gli stipendi ci vogliono industrie che funzionano, e per pagare le pensioni occorre che i cittadini versino i contributi. Ma se tutto è fermo come se ne esce? Forse alcune forze politiche s’illudono di estendere all’intera nazione l’infausto reddito di cittadinanza dei grillini. Ma con quali fondi verrà finanziato se abbiamo già un debito pubblico enorme, e quando l’Unione Europea dimostra, ancora una volta, la sua inutilità? Ora se ne sono accorti persino Romano Prodi e Mario Monti, ed è tutto dire.
Per le ragioni suddette è inutile, a mio avviso, mettere in croce Matteo Renzi per aver posto il problema. D’accordo, lo avrà fatto per tornare al centro della scena come tanti ipotizzano. Non si può tuttavia negare che abbia additato all’opinione pubblica l’urgenza di riflettere su un “dopo” che si preannuncia quanto mai oscuro.
Se i sindacalisti, che in teoria dovrebbero difendere i posti di lavoro, scrivono articoli sui giornali esaltando Greta Thunberg e favoleggiando di green economy, qualcuno dovrà pur rammentare agli italiani che, continuando così, rischiamo di schiantarci. Che lo faccia Renzi o un altro poco importa, essenziale è porre il problema all’ordine del giorno.
Nel frattempo, estremisti dell’ambiente, marxisti di ritorno e fautori della decrescita felice sono contenti perché, a sentir loro, questa “pausa di riflessione” è utilissima per impostare finalmente un nuovo modello di sviluppo. Non si capisce quale, ma è chiaro che, continuando su questa strada, potremmo presto tornare all’economia medievale del baratto.