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L’Italia rischia di pagar caro l’abbraccio di Xi e l’Europa di svegliarsi troppo tardi

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Da ieri sera il presidente cinese Xi Jinping è in Italia con la sua numerosa delegazione per la firma del Memorandum of Understanding della nuova Via della Seta e nonostante gli sforzi degli esponenti del nostro governo di minimizzare o addirittura negarne i risvolti geopolitici – mentre il presidente Mattarella ieri tentava di buttarla sul “valore culturale” – il significato politico e strategico dell’intesa per Pechino è emerso in tutta la sua portata nella lunga lettera al Corriere della Seta con la quale lo stesso Xi ha presentato la sua visita. Difficile per Governo e Quirinale smentire il presidente cinese e improbabile che a Washington si accontentino delle scomposte e confuse rassicurazioni verbali di questi giorni, di modifiche solo cosmetiche agli accordi o dell’annuncio di una nuova golden power a tutela delle reti che sa di pezza tardiva. Ciò che più irrita Washington è la legittimazione che Roma offre nel cuore dell’Occidente, con la sua adesione, al disegno geopolitico di Pechino, antagonista di quello americano, per di più in un momento in cui sta esercitando la massima pressione nelle fasi cruciali del negoziato commerciale.

Xi Jinping si dice pronto, insieme alla controparte italiana, a un “ulteriore sviluppo del partenariato strategico globale”, a “stringere maggiormente i legami ai massimi livelli e a rafforzare la cooperazione a tutti i livelli tra i nostri governi, parlamenti, partiti ed enti locali; a rafforzare la comunicazione politica, a promuovere la fiducia e i matching strategici, a continuare a comprendere e a sostenere a vicenda gli interessi e i temi più cari alla controparte e a gettare le basi politiche dei rapporti bilaterali”. E ancora: a “rafforzare il coordinamento sull’agenda internazionale e in seno alle organizzazioni multilaterali”, “la sinergia con l’Italia in seno alle Nazioni Unite, al G20, all’Asem e all’Organizzazione Mondiale del Commercio”…

Se ieri il sottosegretario Geraci ribadiva che il 5G non fa parte delle intese, nel memorandum e anche nella lettera del presidente cinese si parla esplicitamente di “telecomunicazioni” tra i settori oggetto di cooperazione nell’ambito della BRI. E stentiamo a credere che si intenda la rete 3G… Andrebbe ricordato l’articolo 7 della legge cinese sull’intelligence approvata nel 2017, in cui si prevede che “organizzazioni e cittadini devono, conformemente alla legge, sostenere, cooperare e collaborare con il lavoro dell’intelligence nazionale”. Qualcosa di simile era già previsto dalla legge sul controspionaggio di qualche anno prima. E non c’è bisogno certo di ricordare la quantità di truppe e armamenti strategici Usa presenti sul nostro territorio per comprendere il livello di allarme a Washington per il pericolo di spionaggio di movimenti e conversazioni.

Per quanto riguarda poi le implicazioni strettamente commerciali, stando a quanto riportava ieri il New York Times, l’aumento dell’export italiano che si prefigura non sarebbe altro che la riesportazione in treno verso l’Europa o per nave di nuovo in Cina di prodotti cinesi finiti di assemblare nel nostro Paese da parte di manodopera italiana. Etichettati come made in Italy se la quantità di lavoro e componenti italiani supereranno i requisiti doganali. La tedesca Frankfurter Algemeine Zeitung parla addirittura di contenuti segreti che Pechino avrebbe preteso di inserire nell’intesa.

Come ha spiegato Dario Fabbri, di Limes, a Radio Radicale, “i cinesi si stanno letteralmente divertendo a tirarci dalla loro parte, a prenderci a simbolo. Firmiamo un memorandum con Pechino nel quale condanniamo il percepito, da parte cinese, unilateralismo americano e il protezionismo trumpiano”. Per non parlare della “definizione dell’Italia come terminal delle nuova Via della Seta: visto che siamo in ambito simbolico, un altro Paese al posto nostro, per esempio la Francia, dubito fortemente che firmerebbe un documento in cui viene definito terminal di qualsiasi cosa, cioè puro oggetto”. Il problema è che ci crediamo furbi a fare affari con tutti, ma poi “ci troviamo, come in questo caso, forse senza rendercene conto fino in fondo, su un ring nel quale si disputano la sfera di influenza, le quote di un futuro sistema internazionale, le due potenze più importanti del pianeta, che in testa non hanno soltanto gli affari economici ma pensano ai loro interessi strategici e quindi ci impongono delle scelte evidenti”.

Fabbri intravede nel nostro governo, ma anche nell’opinione pubblica, la tentazione di “salire sul carro del vincitore”, un atteggiamento “tipicamente italico”. In fondo, si pensa, “anche se non fosse soltanto un accordo economico, seppure ci fosse una dimensione strategica, tutto sommato stiamo guardando al futuro, e il futuro sarà della Cina, mentre l’America è una potenza declinante”. Purtroppo, osserva, questa è una “sciocchezza molto diffusa nella nostra classe dirigente”, ma avere “il Pil più grande del pianeta da qui a qualche anno” non farà automaticamente della Cina la prima potenza del pianeta, quindi “gli americani si fidano poco di noi anche perché vedono questa leggerezza di credere di salire sul carro del vincitore”.

Sempre su Radio Radicale, Francesco Galietti (Policy Sonar) avverte che da parte Usa “sicuramente ci sarà una reazione, non so se una vera e propria ritorsione, forse una botta sui mercati, siamo pur sempre il terzo debito pubblico al mondo”. Pure nel “caos” di una politica italiana “volatile”, osserva, “si sa benissimo che da tempo l’America vede nella Cina un rivale, che questa percezione nuova della Cina precede Trump – ci sono state prese di posizione drastiche anche durante l’amministrazione Obama e lo stesso ‘pivot to Asia’ di Obama non era visto benignamente a Pechino”, quindi la domanda è: perché fingiamo di non vedere, di non capire? Galietti guarda a Oltretevere: “Siamo mesmerizzati da poteri che tradizionalmente hanno governato Roma, prima ancora che l’Italia”.

“Il Vaticano ha una sua agenda di lungo termine con la Cina, lavora a un controverso accordo con Pechino e ha leve potenti nelle istituzioni italiane”, dal presidente della Repubblica Mattarella, “alla faccia di chi l’aveva individuato come difensore dell’atlantismo”, al premier Giuseppe Conte, “devoto di Padre Pio, membro attivo di Villa Nazareth e discepolo putativo del cardinale Silvestrini”. È quindi “il Vaticano che porta in dote alla Cina un proprio gioiello: l’Italia”. Ma il rischio, avverte Galietti, è di “dissipare disinvoltamente il patrimonio, sebbene un po’ impolverato, dell’atlantismo, senza contezza di effettivi benefici” da parte cinese. La stessa idea circolata in questi giorni di far sottoscrivere il nostro debito pubblico a Pechino “rasenta la follia, primo perché non v’è traccia di appetito, poi perché ci metterebbe in una condizione di servitù geopolitica”.

E l’Unione europea? Emblematico della confusione e delle divisioni europee nei rapporti con Pechino, solo pochi giorni fa in un documento della Commissione la Cina veniva definita “rivale sistemico”, mentre la Mogherini correva a mettere una pezza definendola “partner strategico”. La realtà è che mentre a parole si proclama la necessità di un approccio condiviso, unitario con la Cina, per evidenti ragioni di rapporti di forza, gli stati membri sembrano affrettarsi per conto loro tra le braccia di Pechino. Lo stesso summit con Xi Jinping di martedì prossimo all’Eliseo che il presidente francese proprio in queste ore ha voluto allargare alla cancelliera Merkel e al presidente della Commissione Juncker appare più la solita contromossa ad effetto di Macron per rubare la scena e depotenziare la fuga in avanti dell’Italia che non un sincero e soprattutto realistico tentativo di presentare a Pechino un fronte Ue unito.

E d’altra parte, solo di recente nelle capitali europee sembra esserci piena consapevolezza della gravità della minaccia rappresentata dalle pratiche commerciali scorrette cinesi. Ne sono un esempio il piano del ministro tedesco Altmaier per la difesa dei settori strategici e il nuovo regolamento Ue, sebbene ancora insufficiente, sul controllo degli investimenti esteri. Una virata protezionista che comprenderebbe anche una stretta sulle acquisizioni da parte di società partecipate o sussidiate da stati terzi e sugli appalti pubblici, una chiusura di fatto del mercato Ue alle compagnie dei Paesi che non garantiscono “reciprocità” e parità di condizioni. Se ne parlerà al Consiglio Ue di questi giorni, anche se difficile immaginare un’attuazione dei nuovi indirizzi prima del 2020. Non che qualche anno fa tali questioni non venissero sollevate nei colloqui con i cinesi, ma si accettava di farsi prendere in giro, si fingeva di credere alle loro promesse mai mantenute, si rimandava. E quando il presidente Trump manifestava la volontà di prendere di petto il problema dando inizio alla guerra dei dazi per costringere Pechino a trattare sul serio, si puntava il dito contro di lui gridando al ritorno degli Usa al protezionismo, mentre si accoglieva il presidente Xi a Davos come il difensore dell’ordine liberale e della globalizzazione. Oggi che il negoziato diretto Usa-Cina rischia di lasciare l’Europa ai margini, e in balìa di Pechino, forse si sono aperti gli occhi e si cerca tardivamente di correre ai ripari lavorando a una posizione comune per ottenere “reciprocità”. Ma ancora non si è compreso che la migliore strategia sarebbe quella di fare fronte comune con Trump, magari aprendo a un’area di libero scambio euroatlantica.

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