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Lo sdoganamento della censura: nemmeno un privatissimo biglietto d’auguri è al riparo dai triocchiuti progressisti

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Il caso del rider che, licenziato per aver distrutto un biglietto nostalgico del Ventennio che avrebbe dovuto recapitare, è stato riassunto dall’azienda. Lieto fine? No. Così si è affidata al postino la discrezionalità se consegnare o meno un messaggio, a seconda del suo contenuto. E la motivazione che c’è dietro passa in secondo piano… È lo sdoganamento della censura

La settimana del 25 aprile – 1 maggio, quest’anno, oltre che una pioggia continua, ci ha regalato anche una storia di lavoro e di antifascismo. E di censura. La location della storia è Bologna. Un attivista politico di destra, Vittorio De Lorenzi, riceve in dono da un amico d’infanzia due bottiglie di vino. Dentro il pacco, consegnato tramite la piattaforma Winelivery da un rider trentenne, Luca Nisco, c’è anche un biglietto. Va ad aprire la porta, per ritirare il pacco, la moglie di De Lorenzi. È davanti ai suoi occhi che il rider strappa il biglietto, platealmente. Dopo stupore e perplessità di De Lorenzi e della moglie, ricomponendo quel foglio di carta strappato in 11 pezzi, si scopre che c’era una dedica da nostalgico del Ventennio: “In questo giorno di lutto il nostro Duce da lassù possa guidare la rinascita”. Era il 25 aprile. Il giorno dopo, il rider è stato sollevato da ogni incarico dalla piattaforma online per cui lavorava. Motivi: violazione della privacy e comportamento scorretto.

Ma Luca Nisco ha dichiarato che in quel 25 aprile la sua coscienza antifascista ch’entro gli ruggiva non gli ha consentito di consegnare il sacrilego testo al destinatario. Il contenuto del messaggio gli era noto, perché doveva essere trascritto dall’operatore, non era stato inviato direttamente e in busta chiusa dal cliente. Quindi, saputo del testo che avrebbe dovuto recapitare: “Ho provato indignazione per quel messaggio, stupore che ancora oggi siano scritte certe cose”, ha dichiarato nella sua intervista al Resto del Carlino. “Appena arrivato al domicilio, davanti alla signora che doveva ricevere l’ordine, ho preso il biglietto e l’ho strappato”. Ma che c’era scritto? Chiederà lei. Risposta: “Oscenità. Ecco le bottiglie e buona giornata”.

Luca Nisco, dopo la sua sospensione, è ora un’icona dell’antifascismo. Intervistato da Selvaggia Lucarelli e difeso da Andrea Scanzi, il suo è diventato un caso di “licenziamento politico” noto in tutto il Paese. E così l’azienda ha annunciato, alla vigilia del 1 maggio, la notizia della sua riassunzione:

Winelivery riconosce la responsabilità oggettiva sulla trascrizione, da parte dell’operatore locale, di un messaggio dal contenuto contrario ai suoi principi e valori. La nostra convinzione, come azienda e come cittadini, è di assoluta condanna ai comportamenti che inneggino in qualsiasi forma al fascismo. Con l’obiettivo di distendere i toni e definire la questione in maniera positiva per tutte le parti in causa, ci rendiamo nuovamente disponibili ad accettare le candidature da parte di Nisco, nella certezza che i suoi comportamenti lesivi della privacy del cliente e dell’immagine aziendale non si ripetano nel futuro”.

Lieto fine? Neanche per idea. Sicuramente nessuno gioisce per un licenziamento, ma riassumere una persona che ha il compito di consegnare tre oggetti, ma ne distrugge deliberatamente uno, non è un segnale positivo. Di fatto si è affidata al postino la discrezionalità se consegnare o meno un messaggio, a seconda del suo contenuto. La motivazione che c’è dietro, a questo punto, passa in secondo piano. Se A consegna un messaggio a B e il postino rifiuta di farlo, crolla quella fiducia indispensabile a tenere in piedi tutto il sistema. Viene meno il basilare rispetto dei contratti, senza il quale ogni scambio è impossibile.

Poi ci sono altri aspetti che non dovrebbero far dormire la notte, come l’espressione “condanna ai comportamenti che inneggino in qualsiasi forma al fascismo” contenuta nelle motivazioni di Winelivery (corsivo nostro, ndr) per la riassunzione di Luca Nisco. Considerando che oggi il termine fascista viene applicato a tutti coloro che non sono di sinistra, o anche a tutti coloro che semplicemente seguono comportamenti personali “destrorsi”, cosa verrà distrutto nelle prossime spedizioni? Se ordino un libro di Donald Trump come “The Art of Deal”, devo aspettarmi di vederlo recapitato ridotto a striscioline di carta? Se spedisco a un mio amico libri dal titolo “osceno” come “Le virtù del nazionalismo” di Yoram Hazony o “Eurabia” di Bat Yeor, devo avvertire il destinatario che il postino potrebbe anche strapparli platealmente davanti ai suoi occhi, o farne un falò sull’uscio di casa? Ogni cosa può essere giudicata “fascista”. Anche uno scherzo. Se mandassi per burla un motto come “Vinceremo in cielo, in terra e in mare” a un amico comunista, per provocarlo e farci assieme una risata, sono veramente sicuro che l’ironia venga colta anche da chi deve consegnare il messaggio? Oltre all’incertezza dei contratti, dunque, si aggiunge la paura per l’arbitrio della decisione (altrui e fuori da ogni accordo) su cosa possa essere giudicato politicamente corretto e consegnato, e cosa possa invece essere deliberatamente distrutto. Una paura che induce all’autocensura.

Infine, questo è l’ultimo dei tantissimi episodi che dimostrano una tendenza molto pericolosa: lo sdoganamento della censura. Parlare di censura, fino al ventennio scorso, era apparentemente inconcepibile. Era una cosa di “destra” o da dittatura, non degna di una società aperta. Invece di superare, una volta per tutte, leggi anacronistiche, come quella che vieta l’apologia di un regime morto e sepolto da quasi ottant’anni, o i tanti reati d’opinione che ancora ci affliggono (i vari vilipendi a bandiere e cariche dello Stato), le censure si estendono a macchia d’olio, finendo per coprire ogni tipo di discussione.

È diventato normale, ad esempio, che un presidente ricandidato alle elezioni venga escluso dai social network e una sua conferenza stampa sia oscurata dalle maggiori televisioni nazionali, perché il suo discorso contiene “fake news”. È ormai normale che medici e scienziati siano esclusi dai social network se le loro teorie sulla pandemia di Covid contrastano con linee guida dei governi nazionali e dell’Oms. È diventato normale censurare anche cartoni della Disney di mezzo secolo fa se contengono inaccettabili stereotipi razzisti, come gatti siamesi che parlano con l’accento cinese. Sta diventando normale cancellare dai programmi scolastici i grandi del pensiero filosofico e scientifico, i classici della letteratura e dell’arte, se col senno di oggi sono considerati razzisti, sessisti, omofobi, anche se vivevano nell’antica Grecia. Quindi è ancor più normale che un postino distrugga un messaggio dai contenuti fascisti. C’è anche una legge contro l’apologia, quindi…

Non deve trarre in inganno il fatto che queste censure siano applicate da aziende private, come ribattono i liberali della domenica (quelli che si ricordano del valore della proprietà privata solo quando porta al diritto di escludere conservatori, cattolici e fascisti). È chiarissimo il loro intento politico. Quindi se uno Stato islamico proclama una fatwa in cui condanna a morte uno scrittore o un vignettista e poi questo viene ucciso da un “lupo solitario”, la colpa è sempre di quello Stato che ha emesso la fatwa, non solo del privato cittadino terrorista che l’ha eseguita. Qui non ci troviamo di fronte a casi di censura puniti con la morte (per lo meno, non ancora), ma la dinamica è esattamente la stessa: un apparato pubblico che non ha il coraggio di esporsi sempre direttamente, affida al privato il lavoro sporco. E trova sempre dei volenterosi esecutori, grandi e ricchi come Facebook e la Cnn, o giovani e precari come il rider di Bologna. Ma è censura, sempre censura. E come tale dovrebbe preoccuparci veramente, se vogliamo continuare a vivere in una società aperta, l’unica in cui anche fascisti e comunisti godono di pari diritti di vita, libertà e proprietà.

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