Chi ha anni, ha ricordi che molti non hanno. Mi è ritornato in mente un episodio ormai storico, in cui ebbi un modestissimo ruolo di supporto al lavoro del mio maestro, Federico Mancini, nel ricostruire il comportamento tenuto da altri Paesi di fronte a sequestri di personaggi politici. Moro, quello rapito dalle Brigate rosse, era il promotore del compromesso storico fra Dc e Pci, finalizzato a neutralizzare il Psi. Lo aveva chiesto Craxi, quasi isolato nel sostenere lo scambio di Moro, rapito dalle Brigate rosse, con qualche detenuto terrorista, eppure lo spazio lasciato aperto dal fronte della fermezza era troppo largo, per non tentare un tattico del peso del leader socialista a riempirlo. Di fatto quello che univa ufficialmente Dc e Pci sul rifiuto a trattare, era che il riconoscimento delle stesse Brigate rosse avrebbe comportato un costo insostenibile; ma sotto c’era qualcosa di più, cioè una sorta di paternità dell’humus che le alimentava, una mescolanza fra cultura della rivoluzione e teologia della liberazione, che andava negata fermamente da parte di entrambi i due partiti maggiori. Come ben noto, lo scambio non fu neppure tentato, nonostante lo stillicidio di lettere lucide e amare provenienti dal fondo della prigione; e il cordoglio di prammatica per l’esecuzione fu attenuato dal giudizio lapidario che lo Stato aveva vinto. Così uscì dalla scena il più grande uomo politico della Prima Repubblica, subito dopo De Gasperi, che certo sarebbe stato assai utile negli anni che seguirono, fino all’avvento di quella conosciuta come Seconda Repubblica, se pur a cambiare non fu la Costituzione, ma solo la legge elettorale.
Bene, comunque, ne esce il ritratto di un Paese serio, come confermato dall’indirizzo seguito nei casi di sequestri effettuati qui da noi, nei confronti di personaggi in vista, al fine di ottenere un riscatto, non più un risultato politico, ma solo economico. Che cosa è successo? Che le procure hanno condiviso la linea di bloccare i patrimoni dei parenti per impedire la realizzazione del reato tramite il pagamento, cioè in soldoni l’uso di beni propri per avere una liberazione rapida e sicura del loro caro. Niente da dire, perché la misura sembra aver funzionato, tanto che i sequestri si sono diradati fino a sparire.
Se questo è lo sfondo, come si spiega il ben diverso comportamento tenuto nei confronti di sequestri di cittadini italiani effettuati all’estero da gruppi terroristici? A stare all’elenco maturato a tutt’oggi, del riscatto ne hanno usufruito tutti (tranne il Quattrocchi del “vi faccio vedere come muore un italiano”), a prescindere dal perché e percome si trovassero proprio lì, per lavoro, per aiuto, per turismo, in territori infestati da guerriglieri. Sembra quasi si sia consolidato un diritto, per cui uno va dove vuole per qualsiasi motivo, senza tener minimamente tener conto del rischio noto e stranoto, tanto c’è Pantalone che tratterà sul prezzo e pagherà, per foraggiare le schegge più sanguinarie del fondamentalismo islamico, anche a costo di perdere la faccia nel panorama internazionale.
L’ondata di buonismo esplosa nei confronti di Silvia alias Aisha, che forse vale ricordare che Maometto sposò quando lei era ancora minorenne, si è rapidamente sgonfiata via via che la vicenda è venuta chiarendosi, come risulta da una stampa pur simpatetica già nella giornata di martedì. Per cominciare il racconto dall’inizio, la nostra era una volontaria di una piccola e sconosciuta onlus di Fano, che la ha spedita in una zona diciamo agitata, sola e con la sicurezza fornita da un paio di locali armati di machete. Ora in una intervista data a caldo al Corriere della Sera di lunedì, il presidente di una federazione che riunisce 87 associazioni italiane impegnate nella cooperazione internazionale, con alle spalle la gestione di quasi trentamila volontari, ha ricordato quale dovrebbe essere lo schema: mai una persona sola, mai in una zona insicura, mai senza un recapito in loco, mai senza una garanzia di sicurezza. Beh, dato per scontato che la procura ci metterà un occhio su questa onlus, forse sarebbe il caso che il Ministero degli esteri o chi altro, facesse una specie di censimento in vista dell’affidabilità delle organizzazioni operanti nel nostro Paese, perché certo la libertà è sacra, ma non è che, quanto la si usa con imperdonabile imprudenza, si debba sempre contare sulla mano misericordiosa pubblica.
Una vita è una vita, va salvata comunque. Ammettiamolo pure, anche se questo può valere per la persona, non per la collettività, che – a prescindere da chi la deve mettere in gioco per la professione svolta, ora medici e infermieri in prima linea – ci sarebbe anche la difesa della patria quale sacro dovere del cittadino. La qual cosa, però, non è tale dall’evitare di fare i conti, non per grettezza, ma per vedere quanto ci costa, sì da verificare se era possibile risparmiare da qualche parte, a cominciare dalla somma pagata. Qui non la si conosce, ma certo sarà stata trattata fino al centesimo; né si può dire che avrebbe potuto essere destinata alla cooperazione, moltiplicando per più di mille il lavoro della nostra volontaria, perché non è che tale somma sia spostabile da una voce di spesa ad una altra, addirittura dopo averla già convenuta. Però, prendendo lezione dalla linea seguita nei sequestri avvenuti da noi in vista di un riscatto, si deve avere piena consapevolezza che pagare è incentivare a farli, tant’è che ormai gli italiani sono la preda più ambita, perché si sa che siamo pronti a metter mano al portafoglio, così che c’è tutta una filiera produttiva da compensare, chi sequestra, chi trasporta, chi conserva, chi negozia.
Il che richiederebbe almeno un po’ di consapevolezza. Ma a contare non è tanto il costo economico, ma quanto il politico, comparabile con quello che non si è voluto pagare nel sequestro Moro. Consiste non nello sborsare una cifra certo con molti zero, ma nel farlo a vantaggio di guerriglieri fondamentalisti che li useranno per comprare armi in una lotta senza tregua contro i nostri valori; e questo in faccia a nostri alleati che praticano bell’altro indirizzo, restando relativamente indenni rispetto a tale minaccia. Bene, ma c’è modo e modo per portare in porto l’operazione, cioè tenendola sottotraccia, come si usava fare una volta, con l’affermare di non aver corrisposto alcuna somma. Meglio non dire una bugia, si può obiettare, ma da qui a suonare la gran cassa, con tanto di aereo militare, ricevimento gallonato all’atterraggio, concorso di fotografi, bombardamento massmediale, coinvolgimento di parenti, amici, vicini, cioè a trasformarlo in un accadimento di grande rilievo e richiamo, come se fosse uno straordinario successo nazionale e internazionale! Anche qui c’è il solito che non vede niente di male nel farne un motivo di propaganda al pari di qualsiasi precedente governo, con lo scontato richiamo a Berlusconi; e neppure niente di strano nel coltivarne in lungo ed in largo l’interesse del pubblico.
Si può convenire su tutta la linea, se pur a denti stretti; ma non sul di più rispetto al passato, cioè di essere caduti in una trappola che certo avremmo dovuto e potuto evitare. Tutto preparato con cura, la conversione esibita platealmente fin dall’apparire nella cornice della porta dell’aereo, con tutta la coda di una ricorrenza festosa che è stata ripresa dalle fonti fondamentaliste, facendone una grande vittoria, cosa confermata dall’intervista, fatta dalla Repubblica di martedì, al portavoce di Al-Shabaab, tutta piena di una fierezza arrogante. Non solo nessuno s’è accorto della trappola, ma c’è stato dietro anche un bisticcio fra Conte e Di Maio, perché il secondo si è sentito tagliato fuori dal primo, in un concorso su chi era più bischero.
Che posso dire nel commiatarmi, che ho provato vergogna per il mio Paese, tenere un comportamento impudico può essere scusato, ma gloriarsene urbi et orbi, è segno sicuro di un grave deficit del senso dello Stato, che non è perdonabile neppure ad un apprendista come il nostro presidente del Consiglio.