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Lo svuotamento della democrazia liberale e la “sinistrizzazione” dell’Occidente

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Nel leggere l’articolo di Marco Cesario sul declino della laicità in Francia pubblicato su Atlantico Quotidiano sabato scorso, il primo pensiero è andato a Marco Pannella e alle campagne radicali per i diritti civili. Mi sono ricordato di quando la denuncia del dogmatismo religioso e dell’influenza dei settarismi nelle società aperte era considerata una classica battaglia liberale, si trattasse di fascismo, comunismo, clericalismo o – come in questo caso – di islamismo radicale. Non c’è bisogno di retrocedere troppo nel tempo, quindici o venti anni fa le democrazie occidentali erano ancora in grado di riconoscere e rivendicare i principi costitutivi della loro esistenza, senza dover per questo rinunciare al pluralismo delle diverse opzioni politiche e ideologiche. Riproporre oggi le stesse istanze, invece, rischia di aprire la porta ad accuse di razzismo, di suprematismo bianco, di imposizione del modello patriarcale e capitalista, di estremismo di destra.

Lo stesso discorso vale per altri temi specialmente sensibili, si pensi al rispetto della proprietà e dell’iniziativa privata, alle politiche sull’immigrazione, alle questioni legate all’identità sessuale e via dicendo. Quelle che, durante tutto il decennio seguito alla caduta del Muro di Berlino, erano ancora considerate dall’opinione pubblica maggioritaria posizioni perfettamente coerenti con la salvaguardia della libertà e della democrazia, oggi sono il più delle volte etichettate come reazionarie o, genericamente, di destra. Idee che fino a pochi anni fa erano patrimonio comune dell’Occidente e venivano ripudiate solo da estremisti e totalitari nostalgici, oggi sono il bersaglio di un attacco concentrico volto a delegittimarle quando non a criminalizzarle proprio da parte di quei settori della politica, della società e dei media che pretendono di accreditarsi come custodi unici ed esclusivi dei valori democratici. Se recuperassimo il saggio di Lenin “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”, ci accorgeremmo che le tesi esposte fanno oggi parte del discorso politico mainstream.
Cosa è successo ma, soprattutto, come è potuto succedere e qual è l’obiettivo finale di questo processo? Senza nascondermi la vastità e complessità del tema, proverò di seguito ad accennare a qualche possibile risposta.

Cosa è successo – È successo che mentre il fantasma dell’estrema destra, convenientemente alimentato dal circo politico-mediatico progressista, aleggiava sull’Europa e sugli Stati Uniti, lo spettro ideologico dell’Occidente si è spostato gradualmente ma inesorabilmente a sinistra. L’uso politico dello spauracchio nazional-populista delle “destre” ha ottenuto un doppio risultato: da una parte omologare la tradizione liberaldemocratica a quella della destra illiberale, in un incredibile ribaltamento di prospettiva che conduce direttamente da Hayek al fascismo, tramite la caricaturizzazione della libertà economica (il “neoliberismo selvaggio”) e della democrazia formale e la riproposizione del ruolo preponderante dello Stato come strumento di direzione e controllo della società; dall’altra, occultare il vero processo di normalizzazione ideologica attraverso il quale l’agenda della sinistra, uscita con le ossa rotte dalla Guerra Fredda, è stata imposta a tutti i livelli con la collaborazione di un sistema mediatico allo stesso tempo succube ed entusiasticamente complice.

Questa sinistrizzazione delle società occidentali supera, adattandola alla contemporaneità, la classica formulazione dell’egemonia gramsciana: si tratta di un movimento molto più subdolo e strisciante, che in genere non si esprime in una contrapposizione frontale ai principi della democrazia liberale ma che ambisce ad appropriarsene per snaturarli. Nel XXI secolo la sinistra non assalta più il palazzo ma scava sotto l’edificio fino a minarne le fondamenta.

Come è successo – Il processo descritto poggia su due pilastri: la politica dell’identità e la strumentalizzazione dell’antifascismo.

Sulla prima si sono cimentati negli ultimi anni illustri politologi, preferendo però concentrare l’attenzione soprattutto sulle derive del populismo di destra. In realtà il fenomeno identitario moderno sorge a sinistra nell’ultimo decennio del XX secolo, una volta sepolta l’utopia collettivista sotto le macerie del socialismo reale. Nasce cioè, non per caso, nel momento del liberalismo trionfante, dando il via a quell’opera di mimetizzazione e trasformazione che arriva fino ad oggi. La sinistra comincia a interessarsi a gruppi sempre più ridotti e specifici invece di perseguire la sua tradizionale (almeno in teoria) difesa dei grandi collettivi di sfruttati. In un primo momento (siamo a cavallo del nuovo secolo, post-11 settembre e guerra in Iraq) questa regressione verso identità ristrette si manifesta in un relativismo morale che proclama il rispetto egualitario delle culture indipendentemente dal loro contenuto: chi siamo noi per considerarci migliori di loro. È una trappola, ovviamente, l’ennesimo pretesto per l’autoflagellazione dell’Occidente, ma attecchisce all’interno di una società in cui si insinua con intensità crescente un sentimento di colpa tanto più devastante quanto più evidente risulta il prevalere della società aperta sulle sue alternative passate, presenti e possibilmente future.

Da qui alla seconda fase, quella che stiamo vivendo attualmente, il passo è breve: la pretesa già di per sé dogmatica di eguale riconoscimento di gruppi, tradizioni e culture lascia il posto alla rivendicazione della superiorità di certi gruppi su altri. Nasce la politica del risentimento, del vittimismo e del ricatto morale, ammantata dal velo ipocrita del politicamente corretto. Sono figli di questa deriva ideologica la cancel culture, il femminismo militante – anticapitalista ma non antiislamista –, il neo-marxismo del Black Lives Matter (BLM), il catastrofismo ambientalista, i neologismi imposti dal pensiero “inclusivo”, l’indice dei libri e dei traduttori proibiti (se sei bianco non puoi avere la sensibilità adeguata per interpretare un autore nero), le leggi sulla violenza di genere che scardinano il principio della presunzione di innocenza. La dignità individuale – fondamento del pensiero liberale – viene assorbita all’interno di un’identità comune, collettiva, di appartenenza, e l’azione dei singoli interpretata e giudicata esclusivamente in base a criteri di razza, genere, sessualità, religione o credo politico. In determinati contesti si sviluppa, per contrasto, anche a destra una politica identitaria che include tutte quelle entità ignorate da sinistra: religiosità cristiana, valori tradizionali, etnicismo, nazionalismo. Il magma identitario corrompe prima il dibattito pubblico, poi gli stessi processi deliberativi su cui si fonda lo stato di diritto, soffocando l’unica appartenenza comune in grado di evitare la disgregazione e la frattura sociale, ovvero i principi della democrazia liberale.

Il secondo pilastro della sinistrizzazione è la banalizzazione del fascismo e il conseguente uso strumentale dell’antifascismo. Oltre ad essere la più potente arma di distrazione di massa della politica contemporanea, l’antifascismo alimenta oggi una vera e propria industria: sull’estrema destra si scrivono montagne di libri, si organizzano conferenze e corsi a pagamento, si compilano liste di proscrizione, si nutrono le frange estremiste dei centri sociali che servono a mantenere in costante tensione la società civile e a provocare una risposta “repressiva” (cioè “fascista”, facile no?). Come ebbi modo di osservare in un precedente articolo dedicato all’onda lunga dell’ideologia, l’attuale versione dell’antifascismo non si pone come obiettivo contrastare un fascismo peraltro inesistente ma piuttosto segnalare tutto ciò che a suo insindacabile giudizio identifica con il fascismo, vale a dire qualunque cosa non si muova al ritmo imposto dal progressismo militante. Dai professori universitari che non si sottomettono alla linea pedagogica politicamente corretta degli atenei europei o americani, alla tomba di Adam Smith inserita dalle guardie rosse del BLM in un catalogo di siti schiavisti e colonialisti, grazie allo spostamento del baricentro ideologico a sinistra tutto è potenzialmente suscettibile di rientrare nella definizione di fascismo, reazione, populismo. Come nota Giulio Meotti (anche lui ovviamente di estrema destra, stando al credo antifascista), in base ai dettami della neolingua, un giorno “basterà difendere la grammatica per sentirsi dare dei fascisti”.

In realtà, il fascismo non è un problema politico del presente, non esistono Stati fascisti nel panorama politico internazionale, e il richiamo esplicito alla tradizione autoritaria di destra è cosa di gruppi marginali di disadattati. Si osservano certamente involuzioni nazionaliste e populiste in alcune realtà europee ma dietro non c’è un progetto comune, un’ideologia condivisa e promossa in maniera strategica e coordinata con l’obiettivo di sovvertire l’ordine democratico: l’internazionale delle destre è lo spauracchio di cui a sinistra hanno bisogno per giustificare la propria egemonia. Non così sul fronte opposto. Il comunismo e i suoi derivati (socialismo del XXI secolo) sono sistemi ancora vigenti in diversi ordinamenti statali e, soprattutto, sono ideologie che ampie fasce della popolazione rivendicano come legittime, associandole – contro ogni evidenza – alla pratica democratica. Se poi analizziamo i rispettivi buchi neri nel presente politico, da una parte l’Ungheria mitteleuropea di Orbán e dall’altra il Venezuela dei cinque milioni di rifugiati, il confronto è presto fatto e rischia di essere impietoso. Fatte le debite proporzioni, l’antifascismo attuale svolge in Occidente una funzione simile a quella che gli attribuiva la dirigenza della DDR, ufficialmente mito fondativo ma in pratica puntello propagandistico della dittatura ortopedica della SED e della Stasi. I tempi cambiano ma la mentalità totalitaria è dura a morire.

Perché è successo – Il 23 settembre del 2020, durante una sessione parlamentare, il vicepresidente del governo spagnolo nonché segretario generale di Podemos, Pablo Iglesias, si rivolse all’opposizione del Partito Popolare con queste parole: “Non ritornerete mai al governo di questo Paese”. Podemos è uno spin-off del chavismo, una bomba ad orologeria innescata appositamente per far saltare in aria la Spagna costituzionale. È pertanto un esempio paradigmatico di quel processo di erosione della democrazia liberale dall’interno che sottende tutta la mia riflessione. La Spagna, da questo punto di vista, è un osservatorio privilegiato: fu qui che nel 2004 ebbe inizio l’esperienza dello zapaterismo, ovvero quella malattia infantile del progressismo che oggi chiameremmo woke culture e che il Partito Socialista (PSOE) di Pedro Sánchez ha assecondato per puro calcolo di potere.

Arriviamo così alla conclusione del nostro percorso. L’obiettivo dell’egemonia ideologica, sociale e culturale in atto è la conquista definitiva di quella politica, detto in altre parole ciò a cui ambisce la sinistra occidentale è perpetuarsi al potere sbarrando le porte all’alternanza politica. La retorica guerracivilista, accompagnata dal richiamo continuo alla giustizia sociale, ai diritti identitari, alle prerogative di gruppo, in contrapposizione a quelle che storicamente ha sempre considerato spregiativamente libertà borghesi, l’insistenza sul concetto di democrazia reale (leggasi popolare) contrapposta a quella formale (leggasi liberale), sono funzionali al fine ultimo di permeare le istituzioni dello Stato e le diverse espressioni della società civile per trasformarle a propria immagine e somiglianza. È un processo di graduale deterioramento della qualità democratica già visto ad altre latitudini, con risultati drammatici. La sinistrizzazione dell’Occidente tende a fare della democrazia liberale un significante vuoto, riempibile del contenuto che più conviene a seconda delle circostanze (di recente in Italia perfino il Movimento 5 Stelle si è autodefinito un partito “liberale e moderato”), mentre l’essenza del liberalismo – ovvero la difesa delle prerogative individuali dall’interferenza del potere pubblico in ambito personale, politico ed economico – viene derubricata a mero interesse egoistico, parodiata e vilipesa. È la battaglia del nostro tempo, è esistenziale, e per non perderla bisognerebbe cominciare a combatterla.

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