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L’Occidente che si mobilita per i musulmani discriminati ma dimentica le persecuzioni nei Paesi islamici

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Ha suscitato reazioni sdegnate in tutto il mondo la decisione del governo nazionalista indiano di impedire l’immigrazione islamica proveniente da Paesi vicini come Pakistan, Bangladesh e Afghanistan. Premetto che tali reazioni sono, in linea di principio, del tutto giustificate. Discriminare i migranti sulla base del loro credo religioso rappresenta, in effetti, un vulnus alle regole della convivenza democratica.

Un altro caso si è avuto quando parecchie nazioni islamiche, la quasi totalità delle quali è retta da regimi illiberali o addirittura dittatoriali, ha chiesto alla comunità internazionale di processare il Premio Nobel Aung San Suu Kyi e il governo di Myanmar per la persecuzione della minoranza musulmana dei Rohingya. In questi frangenti lo sdegno è anche dovuto al fatto che Aung San Suu Kyi ha ricevuto nel 1991 il Nobel per la pace.

Un terzo caso, anche se meno eclatante dei precedenti, è sorto con la Thailandia, accusata anch’essa di praticare politiche discriminatorie e repressive nei confronti delle minoranze islamiche stanziate soprattutto nella parte meridionale del suo territorio.

Il fatto è che l’India è una nazione a forte maggioranza indù, mentre nel Myanmar e in Thailandia la stragrande maggioranza della popolazione è buddhista. E, come accade quasi sempre nei Paesi extra-europei, la religione viene vissuta anche come collante dell’identità nazionale. Ne ha scritto con grande intelligenza Samuel Huntington.

Sicuramente non si tratta di un fatto positivo. Ma occorre pure chiedersi come mai uno sdegno analogo, in Occidente, non venga indirizzato verso i tantissimi, quasi tutti, Paesi islamici che praticano pervasive politiche repressive e discriminatorie nei confronti di ogni minoranza religiosa, ivi inclusa quella cristiana.

È possibile criticare Narendra Modi e il suo governo nazionalista. Ma perché si preferisce per lo più glissare su quanto avviene nel confinante Pakistan musulmano? E perché si tace sull’assoluto divieto di costruire luoghi di culto non islamici nello stesso Pakistan o, per fare due soli esempi, in Arabia Saudita e in Iran?

In realtà, c’è la netta sensazione che spesso, in Occidente, vengano utilizzati due pesi e due misure. Se ad essere perseguitati sono i musulmani si levano subito grida di sdegno e di dolore, anche da parte delle massime autorità della Chiesa cattolica. Se lo sono i buddhisti, gli indù o anche i cristiani, si preferisce smorzare i toni, forse per non guastare i rapporti economici con le nazioni islamiche.

È ovvio che sarebbe preferibile vivere in un mondo in cui vigesse la totale libertà di fede, un mondo in cui la religione non fosse vista quale strumento per mantenere l’identità nazionale.

Purtroppo non è così e occorre rassegnarsi alla presenza di una realtà ben diversa. Tuttavia, lo sdegno non può sempre essere a senso unico, altrimenti si rischia di legittimare quanto fanno gli esponenti di una certa religione attribuendo loro una sorta di supremazia implicita, e mettendo sotto accusa soltanto gli altri.

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