Le città americane a ferro e fuoco. Un sindaco umiliato e cacciato da una manifestazione che aveva contribuito a organizzare. Le statue di Churchill e Lincoln profanate. La polizia inglese in fuga davanti alla folla rabbiosa. La criminalizzazione indiscriminata dell’uomo bianco. Politici e forze dell’ordine in ginocchio davanti ai violenti. Una rivoluzione culturale in sedicesimo nelle strade dell’occidente democratico. Cosa sta succedendo? Sono i frutti di un ventennio avvelenato, cominciato ufficialmente in quel di Durban tre giorni prima degli attentati dell’11 settembre 2001 e annunciato dalla guerriglia urbana anti-globalizzazione di Genova nel luglio di quello stesso fatidico anno. Quel che andò in scena nella città sudafricana in occasione della Conferenza Mondiale contro il Razzismo (organizzata dall’Onu) fu poco raccontato, complice il massacro delle Torri che monopolizzò l’attenzione mediatica, eppure fu un passaggio fondamentale per comprendere la progressiva erosione dei principi liberaldemocratici nelle nostre società. Anche se la dichiarazione finale venne attenuata dopo il ritiro delle delegazioni americana e israeliana, l’intero processo preparatorio di quella che avrebbe dovuto essere un’occasione per il riconoscimento dei diritti di tutte le minoranze oppresse si trasformò in un processo sommario a Israele per il trattamento “inferto ai palestinesi“, durante il quale si equipararono esplicitamente sionismo e razzismo, si parlò di “pulizia etnica della popolazione araba” e di “nuovo apartheid“. La maggioranza “antiimperialista“, succube della propaganda araba e terzomondista, riuscì a far passare un’agenda in cui l’unica democrazia compiuta del Medio Oriente e la più grande democrazia del mondo, gli Stati Uniti – ritenuti i soli responsabili storici dello schiavismo – erano messi sul banco degli imputati con una condanna già scritta: ironia della storia, la Conferenza contro il Razzismo si trasformò in un teatro di antisemitismo e antiamericanismo, dove i regimi illiberali sentenziavano le società aperte per le loro “colpe storiche“.
Un’orgia di vittimismo che, pochi giorni dopo, trovò la sua realizzazione più spettacolare negli attacchi terroristici di New York e Washington, in cui si colpiva il cuore politico, economico e ideale di quell’occidente che finalmente pagava per i suoi soprusi. L’indignazione tardò poco a lasciare il passo al solito rovesciamento della realtà: le vittime se l’erano cercata.
L’intifada di Al-Aqsa, l’ondata di attentati contro Israele lanciata un anno prima con il pretesto della passeggiata di Sharon al Monte del Tempio, entrava in quel momento nella sua fase più calda. Di nuovo, complici ampie fasce di opinione pubblica occidentale, invece di far fronte comune contro un fanatismo che utilizzava gli stessi soggetti in nome dei quali diceva di agire come carne da cannone nella sua strategia del terrore, invece di produrre anticorpi a difesa, le nostre società sperperavano il capitale morale conquistato dopo il crollo del comunismo in una drammatica autoflagellazione: se abbiamo creato la società più prospera e libera della storia dev’essere necessariamente a spese di qualcun altro, che adesso si sta vendicando.
L’onda lunga dell’ideologia sconfitta nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino, orfana dei suoi riferimenti storici, cambiava pelle ma manteneva sostanza e parole d’ordine. A Genova, ricordata oggi solo per le violenze della polizia, andò in scena un’altra rappresentazione tragica di come sotto le macerie di quel disastro storico fumavano ancora le ceneri totalitarie: la distruzione fisica della città era di nuovo giustificata come la “rivolta degli oppressi“, gli slogan e i simboli di morte del comunismo presentati come istanze di liberazione, le rivendicazioni di giustizia sociale rivelavano agli occhi di chiunque volesse vederla la loro vera natura: l’attacco frontale alla democrazia liberale, nelle sue declinazioni politiche ed economiche, il vero nemico dei fondamentalisti di ogni epoca, colore e provenienza.
Vent’anni dopo siamo alle prese con una mutazione dello stesso fenomeno, l’eterno ritorno dell’ideologia, tecnologicamente perfezionato, socialmente sfaccettato in battaglie apparentemente multiuso ma caratterizzate tutte dallo stesso comune denominatore, a tratti più subdolo nelle sue manifestazioni ma perfettamente riconoscibile negli esiti e negli obiettivi. Un fenomeno più facile da identificare quando rivela tutto il suo potenziale di distruzione materiale (i disordini nelle città americane e gli scontri in quelle europee), ma perfino più insidioso quando si limita a manipolare principi, concetti e linguaggio facendo uso degli strumenti che precisamente il sistema politico liberale, che pretende di trasformare, gli mette a disposizione. Una combinazione esplosiva di radicalismo politico, di retorica populista e anticapitalista, di settarismo identitario, ammantata dal velo ipocrita del politicamente corretto, ovvero quella sorta di pensiero unico (o unicamente rispettabile) che ha invaso la mentalità occidentale dopo l’11 settembre 2001 (ma forse anche prima), per farsi elemento costitutivo della sua involuzione. Un figlio degenere della democrazia liberale che quest’ultima non solo non ha avuto il coraggio di ripudiare, ma che ha nutrito e viziato, finendo per esserne divorata.
Dove il Black Lives Matter si salda con il cosiddetto antifascismo militante le città bruciano e le statue si abbattono, anche quelle degli antischiavisti, anche quelle di chi il fascismo l’ha combattuto davvero, scambiati per reazionari da un popolo diseducato ma convenientemente ammaestrato. Prima si chiamava collettivismo, adesso si dice politica identitaria, ma il fine è sempre lo stesso: assimilare l’individuo a un gruppo, deresponsabilizzarlo, dotarlo di un’ideologia e di un nemico contro cui scagliarsi, evitare il pensiero indipendente, annullare la critica, omologare.
Il New York Times costringe alle dimissioni James Bennet – reo di aver pubblicato la polemica opinione di un senatore repubblicano sulle proteste di piazza – come se fosse una Pravda qualsiasi, e l’intelligentsia liberal non solo non insorge ma si adegua al trionfo del settarismo: Bennet se l’è cercata. A Londra imbrattano il monumento a Churchill, lo etichettano come razzista, e in Italia c’è subito chi, dalla sua tastiera progressista, sente il richiamo del branco e si affanna a spiegare che l’ex primo ministro in fondo proprio uno stinco di santo non era. A Richmond (Virginia), sull’onda delle manifestazioni per l’assassinio di Floyd, il governatore decide di rimuovere la statua del generale confederato Lee, nonostante le sue posizioni sulla schiavitù fossero notoriamente molto distanti dal cliché che ci aspetteremmo da un militare sudista. Ma più che con la realtà, la rivoluzione culturale in sedicesimo ha a che fare con l’imposizione della propria visione della storia e dei rapporti sociali. La furia iconoclasta che conduce all’abbattimento dei simboli considerati oppressivi, reazionari o semplicemente borghesi mira a ripudiare il passato in nome di un nuovo inizio, di un’umanità liberata dal peccato delle generazioni precedenti. Nel tentativo di cancellare la storia non allineata allo spirito del tempo si nasconde l’eterna ambizione dell’uomo nuovo che si contrappone alle “genti di prima“. Non c’è utopia dal finale tragico che non si sia ispirata a questa concezione fondamentalista della vicenda umana. Un giorno le statue finiranno e il politicamente corretto dovrà trovare altri idoli da abbattere per soddisfare le esigenze di altre minoranze che si sentiranno discriminate, non importa se a ragione o a torto.
Dopo la fine del socialismo reale la sinistra ha dovuto ripensare la propria strategia: con la lotta di classe ormai screditata, il passaggio alla politica dell’identità è stato quasi naturale, e la difesa di grandi collettivi di “sfruttati” ha lasciato spazio a quella di gruppi sempre più specifici e numericamente ridotti. Osserva Fukuyama nel suo saggio “Identity” che in questa transizione apparente la sinistra è passata ben presto dall’esigenza di un uguale riconoscimento a quella della superiorità di gruppi determinati, considerati portatori di istanze più meritevoli di considerazione rispetto ad altre fino a quel momento comunemente accettate. Da qui al revisionismo, alla memoria selettiva, alla prevaricazione, al rifiuto di tutto quel che non concorda con la nuova ortodossia, il passo è breve. Se la concezione liberale vede nell’affermazione dei diritti individuali la realizzazione della dignità umana, la sua caricatura politicamente corretta fa del riconoscimento collettivo la ragion d’essere della sua azione. In questo movimento pendolare, fatto di corsi e ricorsi, che altro non è che la riproposizione della stessa contesa ideologica di sempre con altri mezzi, il massimalismo si salda con l’auge del populismo, erroneamente considerato in ambito europeo esclusivamente come cosa di destra. In realtà, come il nazional-populismo, il social-comunismo di ritorno si serve nel suo attacco alla democrazia liberale degli stessi strumenti, con la differenza essenziale che, al contrario del suo apparente antagonista, gode di un’approvazione sociale generalizzata e di un’impunità pressoché assoluta. È nella retorica popolo vs. élites che le politiche identitarie trovano la loro sublimazione: pars pro toto, solo alcuni sono realmente “Volk” e gli oppositori di ogni sorta diventano automaticamente “nemici del popolo“, non interlocutori legittimi ma ostacoli da rimuovere.
In un passaggio incomprensibile se non se ne analizzano le premesse ideologiche, la logica indignazione per l’assassinio di George Floyd si trasforma prima in una rivolta dai chiari connotati politici contro la Casa Bianca, per poi rivolgersi anche contro dirigenti simpatizzanti del movimento, come il sindaco di Minneapolis costretto ad allontanarsi a testa bassa tra gli insulti dei manifestanti che gli intimavano di smantellare il corpo di polizia della città. Nelle rivoluzioni, o presunte tali, arriva sempre qualcuno più puro che ti epura in nome del “popolo”. In linea con i dogmi del pensiero unico politicamente corretto (ovvero del vestito con cui l’autoritarismo si presenta in società), anche il populismo usa il linguaggio della democrazia per corromperla e degradarla. La sua azione è specialmente subdola perché difficilmente confutabile prima facie: chi può opporsi alla condanna del razzismo, delle ingiustizie sociali o della violenza domestica? Chi può ragionevolmente non dichiararsi “antifascista” a parte i fascisti? La trappola risiede nel fatto che il populismo ambisce a una chiusura definitiva, alla formulazione di una domanda finale per cui esiste una sola risposta. Ecco perché nelle non-democrazie “noi, il popolo” è un’istanza di liberazione, mentre in democrazia si trasforma nel suo esatto contrario. In Spagna le parole d’ordine dell’anti-occidentalismo governano nella retorica populista e guerracivilista di Podemos: “La destra non comanderà più in questo Paese“. È la deriva che in Venezuela ha portato il chavismo ad occupare il potere per via elettorale per non lasciarlo più. Le affinità elettive non mentono: la co-fondatrice di Black Lives Matter non ha mai nascosto la sua ammirazione per Maduro e il suo regime pauperista.
Proprio come a Durban, è piuttosto razzista questo antirazzismo di piazza per cui l’omicidio di Floyd diventa l’occasione per pretendere dall’intera “razza” bianca un atto di contrizione e di pentimento generalizzato. Significativo che praticamente nessuna delle proteste abbia avuto come oggetto la condotta criminale del poliziotto, che peraltro rischia adesso quarant’anni di galera, ma l’appartenenza dello stesso a un gruppo, quello dei “bianchi”, in quanto tali oppressori. Ancora una volta, siamo di fronte alla collettivizzazione dei comportamenti individuali, anche di quelli criminali, in un climax ideologico in cui scompare perfino il principio della responsabilità penale personale: il ginocchio di Chauvin è quello di tutti i “bianchi”, il collo di Floyd quello di tutti i “neri”. I problemi di questa caratterizzazione sono molti ma alcuni saltano agli occhi immediatamente. Il primo è che si dà per scontato che la condotta del presunto assassino sia determinata da motivi razziali. Il secondo è che certe morti suscitano indignazione solo se i colpevoli appartengono a un determinato gruppo: non si bruciano le città quando un afroamericano ammazza un bianco o un altro afroamericano. Il terzo è che il fatto in sé in fondo non importa, quel che conta è il simbolo, in questo caso la categoria della vittima e del carnefice che sono il frutto, nella narrativa neo-totalitaria che non ammette repliche, di una sovrastruttura sociale profondamente ingiusta, discriminatoria e in quanto tale da rovesciare. Il quarto, il più grave, è che questa rappresentazione, fondata sull’identità di gruppo, che predica il diritto penale d’autore, dove quel che rileva non è come si agisce ma in nome di che cosa lo si fa, diventa ormai l’unica declinazione accettabile della realtà che ci circonda se non si vuole essere accusati di razzismo, di maschilismo, di fascismo e via dicendo. In quell’inginocchiarsi di semplici cittadini, di poliziotti, di politici non c’è il rispetto dovuto ad una vittima ma una resa culturale e morale, un atto di umiliazione al ricatto ideologico permanente che è storicamente il passo che precede la sottomissione. “Non mi inginocchio, proprio perché rifiuto il razzismo“, avremmo dovuto ascoltare da classi politiche degne di questo nome. Invece abbiamo visto Trudeau a capo chino, in un auto da fé le cui fiamme tarderemo a spegnere.
Un culto in divenire, in poche parole, ma con radici profonde nelle esperienze totalitarie del secolo breve, con i suoi adepti, le sue avanguardie, i suoi rituali di odio e di denuncia, la sua pretesa di “rieducare”, i suoi precetti indiscutibili e soprattutto la legittimazione della violenza rivoluzionaria come catarsi, non solo perdonabile ma auspicabile in quanto esercitata per il bene supremo della trasformazione della società. È già stato tutto inventato in politica, basta studiare. Un culto esercitato in nome di un antifascismo da tempo svuotato completamente di contenuto. Non si vedono mai, i sedicenti antifascisti, dove l’oppressione è reale, nelle strade di Hong Kong, attorno ai campi dello Xinjiang, nelle carceri di Teheran, nei centri di tortura della polizia chavista. Il loro campo di battaglia sono le democrazie. Bisogna essere chiari fino in fondo: definirsi antifascisti oggi non significa assolutamente nulla. L’antifascismo ha senso solo nella categoria generale dell’antitotalitarismo, come concetto teorico, come ideale democratico e liberale da difendere. Ma, mentre il comunismo è un sistema ancora vigente in alcuni ordinamenti statali, il fascismo come fenomeno storico non lo è più da tempo. Il problema dell’antifascismo attuale non è che si proponga di combattere il fascismo (che non c’è) ma che attacchi tutto ciò che a suo insindacabile giudizio identifica con il fascismo, vale a dire praticamente qualunque cosa non sia (estrema) sinistra.
Contro l’onda lunga dell’ideologia, contro l’eterno ritorno dell’uguale che oggi prende le forme della regressione identitaria, gli unici antidoti restano lo stato di diritto e la difesa delle libertà e delle opportunità individuali, e gli ideali della democrazia liberale la sola istanza realmente rivoluzionaria che valga la pena perseguire, senza inginocchiarsi. Proprio come fece quell’ubriacone, razzista e misogino di Sir Winston Churchill.