Nonostante i venti di guerra spazzino con forza crescente il continente europeo, si fa fatica a credere che Putin possa lanciare un’invasione in grande stile contro l’Ucraina. Un’azione di questo tipo supporrebbe rischi enormi non solo a livello di immagine (il Cremlino ha poco da perdere su questo terreno) ma anche nella pratica, in quanto non potrebbe non provocare una risposta contundente degli Stati Uniti. Una cosa è che la Nato (leggasi Washington) non abbia nessuna voglia di essere coinvolta in un conflitto per l’Ucraina, altra cosa è accettare l’occupazione di un Paese sovrano, strategicamente centrale, che guarda a Occidente.
Allora cosa ci fanno 120 mila soldati russi, centinaia di mezzi armati e diverse batterie di missili balistici al confine? Le opinioni di esperti e cremlinologi divergono sulle reali intenzioni di Mosca ma due potrebbero essere le risposte più probabili: da una parte mantenere viva la minaccia, garantendo a Putin il vantaggio del fattore sorpresa, dall’altra preparare non tanto un’offensiva quanto una controffensiva in caso di reazione ucraina a un’eventuale dichiarazione di annessione delle province del Donbass. La chiave potrebbe essere tentare la ripetizione del caso Crimea con le cosiddette “repubbliche ribelli“, a cui seguirebbe risposta militare di Zelenskij e conseguente escalation bellica. In quel caso Putin potrebbe presentarsi come l’aggredito agli occhi dei suoi, ma soprattutto potrebbe contare su un atteggiamento più dubitativo sul fronte Nato: muoversi per difendere Kiev è cosa diversa dal farlo per difendere Lugansk.
Di piani di annessione parlava esplicitamente pochi giorni fa il Moscow Times, considerandola una delle opzioni da sempre sul tavolo al Cremlino, caldeggiata anche dalle cosiddette opposizioni sistemiche. A supportare questa ipotesi ci sarebbe la proposta di riconoscimento formale delle autoproclamate repubbliche di Lugansk e Donetsk – dove dal 2014 è in corso la guerriglia separatista dei ribelli filo-russi – presentata dal Partito Comunista e sulla quale la Duma dovrebbe pronunciarsi nei prossimi giorni. Un movimento tattico che potrebbe preludere a successivi sviluppi sul terreno, con l’obiettivo di un’ulteriore destabilizzazione interna dell’Ucraina: l’Est del Paese si ritroverebbe a dipendere anche formalmente dalla protezione russa, istituzionalizzando la sua ostilità nei confronti del governo centrale. Si tratterebbe del superamento di fatto dello spirito degli accordi di Minsk, che garantivano ampia autonomia alle repubbliche del Donbass all’interno del sistema statuale ucraino.
Speculazioni certo, che si muovono però nell’ampio spettro di possibilità apertesi dopo che Putin ha deciso di alzare la posta in gioco con una serie di richieste irricevibili dalla controparte: garanzie scritte sulla fine dell’espansione della Nato ad Est, smantellamento della presenza dell’Alleanza nei Paesi dell’ex Patto di Varsavia, ripristino della sfera di influenza di Mosca sugli ex satelliti e ritiro degli armamenti nucleari americani in Europa. Ovviamente Putin è pienamente consapevole dell’impossibilità di qualsiasi accordo sui punti indicati ma ha puntato al bersaglio grosso per ottenere quel che davvero gli interessa e che considera evidentemente un obiettivo realistico, ovvero che Georgia, Bielorussia e soprattutto Ucraina non si sottraggano mai alla sfera di influenza geopolitica russa. Siamo di fronte alla riproposizione su scala ridotta di quella dottrina della sovranità limitata che l’Unione Sovietica imponeva ai Paesi satelliti e che dal 1991 era caduta in disuso, sepolta dalle rovine dell’ex impero comunista. Il breve conflitto del 2008 in Georgia, l’annessione della Crimea e la guerra nel Donbass cominciata nel 2014 e tuttora in corso, la stessa repressione interna di Lukashenko autorizzata da Mosca, sono da leggere come rivendicazione di quello che il Cremlino considera uno spazio vitale “minacciato” dall’allargamento dell’Alleanza Atlantica. Nel caso ucraino si aggiungono considerazioni di ordine storico e soprattutto ideologico (Kiev come culla della nazione russa), alimentate dal revanscismo nazionalista caratteristico dell’epoca Putin.
Per Mosca, dunque, l’espansione della Nato nell’Europa orientale è il peccato originale delle relazioni tra Occidente e Russia in epoca post-sovietica. Un peccato che Putin si è dato per missione di emendare, a quanto pare con tutti i mezzi a disposizione. Poco importa che questa versione sia poco più di un espediente propagandistico per mascherare le reali ambizioni imperiali russe. In primo luogo non esistono né sono mai esistite, se non nella paranoia da accerchiamento del Cremlino e dei suoi apologeti anche occidentali, intenzioni aggressive della Nato nei confronti di Mosca: se qualcosa si può imputare agli Stati Uniti e ai suoi alleati negli ultimi anni è invece proprio la timidezza nel far fronte alle azioni offensive di Putin contro altri Stati sovrani; in secondo luogo la paventata adesione dell’Ucraina all’Alleanza Atlantica non è un tema all’ordine del giorno né lo sarà nei prossimi anni, come si è affrettato a ribadire anche il segretario di Stato americano al margine degli incontri multilaterali dei giorni scorsi: altro è pretendere garanzie scritte che, di fatto, ne formalizzerebbero l’abbandono alle ambizioni russe; infine le “promesse” di non allargamento successive alla caduta del blocco socialista che sarebbero alla base della grande delusione di Mosca non sono in realtà mai state formulate, e certamente non nella forma ufficiale che pretenderebbero oggi coloro che alla suddetta espansione attribuiscono la responsabilità del conflitto incombente (Stefano Magni ne ha scritto esaurientemente nel suo articolo di ieri).
Ma anche volendo considerare legittime le istanze russe e fondate le loro rimostranze sulla “prepotenza” occidentale, dovremmo comunque convenire che la narrazione che sottende la minaccia di invasione contro l’Ucraina fa acqua da tutte le parti. L’espansione della Nato ad Est non è avvenuta tramite un atto di forza o mediante un’imposizione dall’alto a cui le nazioni coinvolte non si sarebbero potute sottrarre, ma in base alla libera volontà di adesione di Stati pienamente sovrani. La pretesa che Kiev non possa decidere le sue alleanze politiche o militari in autonomia appartiene, questa sì, alla tipica mentalità da Guerra Fredda che Putin si sta incaricando di far rivivere in Europa. Con buoni risultati peraltro, se è vero che le spaccature tra alleati occidentali sono già evidenti, con una Germania prigioniera dei suoi contratti, una Francia in perenne ricerca di un ruolo geopolitico alternativo allo strapotere americano e con schiere di putiniani sparsi un po’ ovunque, già pronti a dar battaglia per il loro zar. È facile prevedere che presto assisteremo a una curiosa commistione di nostalgici del comunismo sovietico e populisti rossobruni di varia estrazione, uniti nella difesa della Russia putiniana dalle “provocazioni” occidentali. Le prime sirene del No alla guerra a senso unico (quello antiimperialista, dove l’imperialismo è sempre a stelle e strisce) si sono già fatte sentire in Spagna: qui la coalizione di governo rischia una crisi diplomatica interna sulla possibile partecipazione del Paese alle operazioni belliche.
Il direttore del Carnegie Moscow Center, Dmitri Trenin, in una recente intervista al quotidiano russo Kommersant ha sottolineato come, dal punto di vista strettamente militare, perfino una presenza di truppe Nato in Ucraina non rappresenterebbe un cambiamento sostanziale in termini di sicurezza per la Russia. La percepita “minaccia” di un’Ucraina dentro la Nato (che, ripetiamo, al momento è puramente speculativa) sarebbe soprattutto di carattere “geopolitico e geoculturale”, in quanto provocherebbe cambiamenti a livello sociale che la allontanerebbero definitivamente dal Russkij Mir. È questo passaggio decisivo che Putin non si può permettere, passare alla storia come il presidente russo che ha perso l’Ucraina. Forse i 120 mila soldati in attesa di un ordine da Mosca non si stanno preparando a un’invasione su larga scala ma certamente sono lì per ricordare a tutti che c’è un lavoro da finire, che l’operazione bellica e annessionistica cominciata nel 2014 è destinata a completarsi, in un modo o nell’altro, con una riconquista o una riunificazione. Di fronte a questa prospettiva, su cui la Russia putiniana non transigerà (è bene esserne coscienti), si staglia l’incertezza di un Occidente indebolito dal virus e dalle divisioni interne, di un superpotenza americana che ha mostrato il fianco nel disastroso ritiro dall’Afghanistan e di una Cina in attesa di cogliere i frutti di uno scontro potenzialmente disastroso in territorio europeo.
Mentre il tam-tam della guerra comincia a rullare intensamente anche sui media occidentali, il conflitto che incombe sull’Ucraina sembra la classica profezia auto-avverantesi: non c’è nessuna logica dietro una possibile invasione russa, non una ragione coerente, per non parlare di possibili giustificazioni. Se ne dibatte come se fosse inevitabile ma nessuno sa davvero spiegare perché. L’Europa osserva attonita per la terza volta in poco più di cent’anni l’avvicinarsi di un conflitto che non ha saputo prevedere, interpretare, prevenire. Gli Stati Uniti, sotto la pallida leadership di Biden più distanti che mai da qualsiasi ruolo di polizia internazionale, sono tirati per la giacca dall’ossessione di Putin. Perché di questo si tratta: dell’eterna ossessione di Mosca per imporsi a quello che non considera uno Stato sovrano, ma un semplice territorio disponibile, sul quale sfogare le proprie frustrazioni di potenza dimezzata. Una guerra inutile, assurda e pericolosa. Da scongiurare.