Se alle parole pronunciate e agli impegni presi mercoledì a Washington tra il presidente americano Trump e il presidente della Commissione europea Juncker seguiranno anche i fatti, il commercio tra Usa e Ue, almeno in alcuni settori, sarà presto più libero, aperto ed equo di quanto lo sia oggi e si aprirà davvero una “nuova fase” nei rapporti commerciali (e non solo) tra le due sponde dell’Atlantico. Sarebbe un esito paradossale e sconcertante per quanti, esperti e commentatori, all’indomani dell’elezione del presidente Trump e del suo ingresso alla Casa Bianca avevano profetizzato sciagure, come l’inizio di un’era di chiusura e protezionismo. Ma non era e non è questo il suo obiettivo: essendo gli Stati Uniti importatori netti, i dazi sono un’arma negoziale, giusta o sbagliata che sia, efficace o meno. Ma ci torneremo.
“Lavoreremo insieme per zero tariffe, zero barriere commerciali, zero sussidi su beni industriali che non siano le auto”, ha annunciato lo stesso Trump al termine dell’incontro con Juncker. “Questo è un gran giorno per il commercio libero ed equo”. “I lavori sui documenti sono già iniziati e il processo sta andando avanti”, anche per ridurre le barriere regolatorie, gli ostacoli maggiori alle importazioni Usa nell’Ue.
Nel frattempo, durante i negoziati, sarà tregua: le parti si asterranno dall’introdurre nuovi dazi, come quelli del 25 per cento sulle auto europee più volte minacciati da Trump, e lavoreranno per risolvere la disputa legata ai dazi su acciaio e alluminio europei (25 e 10 per cento), in vigore dal primo giugno scorso, e alle contromisure sul made in Usa imposte dall’Ue. Inoltre, da parte sua l’Europa si è impegnata ad aumentare le importazioni di soia (colpite dai dazi di Pechino) e di gas naturale liquefatto (per “diversificare” le proprie fonti energetiche) dagli Usa. Altri due capitoli che stanno particolarmente a cuore al presidente Trump.
Dunque, alla fine l’Ue ha ceduto, ha accettato di aprire il negoziato sul commercio con l’amministrazione Trump, mentre fino a mercoledì la linea ufficiale, più volte ribadita, era di ferma contrarietà a negoziare con la pistola dei dazi puntata alla tempia. L’esenzione dai dazi su acciaio e alluminio era considerata una condizione imprescindibile per avviare la trattativa, mentre ora ne farà parte. La concretezza della minaccia di ulteriori dazi, stavolta sulle auto, deve aver indotto a più miti consigli. Sia sul fronte Nato che sul commercio, l’approccio brutale del presidente Trump sembra stia dando i primi frutti. Pur controvoglia e brontolando, gli alleati europei si stanno adeguando.
Ma la ostentata compattezza dell’Unione verrà messa a dura prova dalle aperture di Juncker alla Casa Bianca. Mentre Berlino esprime commenti positivi per un’azione definita “costruttiva” e conferma il proprio “sostegno” alla Commissione, non si può dire altrettanto di Parigi. Se infatti per ora sono salve le quote di mercato Usa delle auto tedesche, il dubbio è che a rimetterci possano essere i Paesi Ue, come Francia e Italia, più interessati all’agroalimentare. Prima il ministro dell’economia francese Le Maire ha avvertito che pretende “chiarimenti” sull’intesa, sottolineando che i negoziati non dovrebbero aver luogo “sotto pressione” e che in ogni caso l’agricoltura “deve restarne fuori”. Poi è intervenuto il presidente Macron, dicendosi “non favorevole ai negoziati su un accordo commerciale ampio” e ribadendo come condizione “preliminare” per qualsiasi passo avanti un segnale di distensione da parte di Washington su acciaio e alluminio. Il presidente Juncker ha agito “in piena armonia” con quanto concordato con i leader Ue, ha replicato un portavoce della Commissione.
“Un importante primo passo” per Kevin Brady, il presidente della Commissione della Camera dei rappresentanti Usa che si occupa anche di commercio, il quale in un colloquio poco prima dell’incontro alla Casa Bianca aveva sollecitato la commissaria europea al commercio Malmström a concordare su “zero dazi” anche sugli autoveicoli, definendolo “un grande passo avanti”. Ma su questo deve aver ricevuto una risposta negativa.
L’incontro era stato preceduto da uno dei tweet di Trump in cui si rinnovava l’offerta già avanzata a Ue e Giappone all’ultimo G7 in Canada, e troppo presto liquidata come provocazione: “L’Unione europea sta venendo a Washington a negoziare un accordo sul commercio. Ho un’idea per loro. Giù tutti i dazi, le barriere e i sussidi tra Usa e Ue! Questo sì, finalmente, sarebbe libero mercato e commercio equo! Noi siamo pronti”.
Qualche giorno prima, al G20 dei ministri dell’economia e delle finanze e dei governatori delle banche centrali, domenica a Buenos Aires, il segretario al Tesoro Usa Steven Mnuchin aveva già rinnovato la proposta del presidente agli alleati del G7, incontrando però le resistenze della Francia, secondo quanto riportato dalla stampa. “Se l’Europa crede nel libero commercio, noi siamo pronti a firmare un accordo” per eliminare dazi, barriere non tariffarie e sussidi. Ma, aveva precisato Mnuchin, “devono esserci tutte e tre le questioni”.
La grande paura dei dazi di Trump spingerà l’Europa a far cadere le barriere regolatorie sui prodotti agricoli e i servizi finanziari che hanno di fatto ucciso il TTIP? C’è da dubitarne… Solo il tempo ci dirà se la tregua siglata mercoledì a Washington produrrà gli effetti sperati, e soprattutto se Bruxelles si impegnerà davvero nei negoziati, o se si tratta solo di un’apertura tattica per guadagnare tempo, evitare i dazi sulle auto nella speranza di una sconfitta del presidente Usa alle midterm di novembre.
In ogni caso, si tratta di una tregua utile anche al presidente Trump: scongiura, per ora, l’impatto sui mercati di un ulteriore giro di vite di dazi tra le due principali economie del mondo, il cui interscambio vale un trilione di dollari, ma soprattutto gli permette di concentrare la sua “potenza di fuoco” e di accrescere la sua leva negoziale nell’escalation della guerra tariffaria con la Cina, la vera priorità dell’amministrazione Usa. Scongiurato il peggio e iniziato il dialogo tra di loro, Ue e Usa possono ora unire i loro sforzi per contrastare le pratiche commerciali scorrette di Pechino: furto di proprietà intellettuale, le compagnie europee e americane obbligate a trasferire know how e tecnologia ai partner cinesi, e sovracapacità produttiva in diversi settori industriali, come l’acciaio, grazie ai sussidi statali. Era questo un altro obiettivo del presidente Trump ed è un altro importante aspetto dell’intesa raggiunta mercoledì con Juncker: Ue e Usa hanno concordato di provare ad agire insieme in sede WTO. Bisognerà vedere se il WTO si dimostrerà all’altezza dei suoi compiti.
Ci sono ancora dubbi sulle reali intenzioni del presidente Trump? I suoi obiettivi erano chiari fin dall’inizio, come proclamati già durante la campagna per le presidenziali 2016: non un ritorno al protezionismo rinnegando la plurisecolare vocazione degli Stati Uniti al libero commercio, ma accordi migliori di quelli siglati dai suoi predecessori, riequilibrio, riduzione del deficit commerciale Usa, un commercio libero ma anche corretto. Certo, poi si può discutere il come, se l’arma dei dazi sia fair o meno, se risulterà efficace o no; e se sia accettabile o meno il rischio di far precipitare il mondo verso una guerra commerciale e di indebolire la crescita economica globale. Ma si tratta di una strategia negoziale.
Sia che Trump intenda procedere sulla strada di negoziati e accordi bilaterali, sia che abbia in mente un’ideale di libero commercio (“zero dazi, zero barriere, zero sussidi”) da realizzare con gli alleati del G7, certamente è sotto esame l’intero sistema di regole e di istituzioni internazionali che è alla base dell’ordine del commercio globale. Se si dimostrerà incapace di accompagnare il riequilibrio che l’amministrazione Usa sta perseguendo, o addirittura d’ostacolo, vorrà dire che avrà deviato dalla missione per cui era stato concepito nel Secondo Dopoguerra e il presidente Trump non esiterà a metterlo in discussione. Basta andarsi a rileggere i testi dei trattati e degli statuti, dal GATT al WTO, per accorgersi che ha funzionato bene nel promuovere il libero scambio e l’espansione del commercio internazionale, ma non altrettanto nell’impedire squilibri eccessivi, svalutazioni competitive e politiche mercantiliste. L’inerzia attuale, permettendo da due decenni a un’economia ancora chiusa, non di mercato, come quella cinese, e a un mercato iperprotetto come quello europeo, di approfittare dell’apertura unilaterale del mercato Usa, non tutela più gli interessi americani e anzi sta favorendo la sfida di Pechino alla leadership Usa.