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L’ultima follia di Hollywood: il manuale Cencelli delle minoranze per i film che concorrono agli Oscar

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Questa storia dell’inclusività vi sta dando alla testa amici dell’Academy Awards, ma non solo a voi, anche qui in Italia da qualche tempo non si fa altro che utilizzare, spesso anche a vanvera, il termine e il concetto di inclusività a seconda di come fa più comodo agli sponsor di questa o quella ideologia che ci, vi, vogliono propinare.

Questo progetto di controllo culturale che, per chi ancora non lo sapesse, o non l’avesse capito, è un movimento ideologico sovranazionale, nato dal manifesto dell’economista, filosofo, politico ed attivista greco Takis Fotopoulo “Per una Democrazia Globale”, ovvero la creazione a livello mondiale di una democrazia inclusiva, è un sistema politico-economico socialista-libertario, che mira a creare una società egualitaria retta da una democrazia diretta di stampo ateniese, con un’economia autogestionaria democraticamente pianificata e fortemente improntata sui principi dell’ecologia sociale. E per fare ecologia sociale, è risaputo, devi cominciare  dall’ecologia del pensiero, cioè fare una selezione del pensiero che collimi con il disegno politico nella testa della gente, espungere tutto ciò che non  rientra nel piano di “conquista”.

Piano al quale anche gli Studios hanno evidentemente deciso di aderire. Infatti, stando al nuovo codice etico fresco di presentazione alla stampa, i film che potranno essere candidati a ricevere l’Oscar dovranno rispettare rigide regole e criteri di trama e di rappresentanza di questa o quella minoranza etnica che dovrà essere da statuto una categoria in qualche modo “sottorappresentata”. Insomma, da Los Angeles, come Savonarola nel ‘400, hanno deciso che è ora di insegnarci come stare al mondo, come vivere, come  includere “l’altro da noi” anche nella finzione. Perché, ricordiamolo, a parte qualche raro caso in cui a vita imita l’arte è l’arte che imita la vita.

E allora la vita è cattiva, meschina e marginalizzante, piena di voci che non verranno mai ascoltate, giudizi e pregiudizi che fino ad ora proprio il cinema da Charlie Chaplin in poi ha evidenziato spesso con ferocia e senza “inclusività” alcuna. I nostri Catons – americanizzazione alla Alberto Sordi di Catoni, i censori – hanno deciso anche le percentuali: almeno il 30 per cento di tutti gli attori della pellicola dovranno provenire da gruppi sotto rappresentati, come le donne (cioè: le donne sono ufficialmente sotto rappresentate nel mondo al pari di neri, indigeni, mediorientali, nativi hawaiani o di altre isole del pacifico Lgbtq, disabili cognitivi o sordi. Buono a sapersi).

Però la cosa sarà a regime solo nel 2025, quindi la sensibilità della gente e degli addetti ai lavori ha altri cinque anni per “adeguarsi alla normativa”. Questi sono scemi.

Nel frattempo, quindi, diteci, possiamo continuare ad essere brutti sporchi e cattivi? Sergio Leone e non solo lui non l’avrebbero presa un gran che bene.

Privare il cinema e cioè l’arte di raccontare per immagini e suggestioni della sua componente emozionale, obbligando lo spettatore a guardare solo contenuti aggregati dentro a rigidi parametri di ciò che è giusto e ciò che è consono in termini di inclusività è la morte della creatività, la morte del cinema, la morte dell’arte, è un Frankenstein intellettuale assemblato con pezzi di africani, svedesi, ebrei e maori della Papuasia se no non va bene, non include, non rappresenta. Ma imporre di dover rappresentare una realtà irrealistica dove c’è sempre un povero emarginato secondo gli standard è quanto di più puritano, buonista, noioso e ipocrita possa esistere.

Anche chi lavorerà nelle produzioni dovrà rispettare i criteri di selezione del personale, anche il marketing, anche la pubblicità del film dovranno spappolarcele con tre secondi di fraternalismo universale anche nel trailer  e nel cartellone o nella locandina, dove secondo loro dovremo, quindi,  intuire magari qual è l’omosessuale, presumibilmente dalla faccia, chissà…

I cattivi e i bastardi senza gloria però, sia in ruoli primari che da non protagonisti, potranno essere adeguatamente rappresentati da tutti, belli brutti, bassi grassi, e non dovremo più fare i cattivi non facendo giocare tutti i bambini, non invitandoli tutti alla festa, altrimenti tottò sulle manine e niente statuina d’oro.

Ma, d’altronde, l’abbiamo visto anche in questa edizione del Festival di Venezia, purtroppo ormai l’establishment cinematografico la pensa solo da una parte, cioè quasi sempre a sinistra, con la solita e ben nota presunzione di dover dare linee guida anche al pensiero, col risultato, deprimente, che anche quello che era il festival per eccellenza delle nostre produzioni nazionali ed europee si è ridotto a fare da eco alla passerella di ex cubiste, ex commesse, pochi attori veri, con tanto di pugno chiuso ai fotografi di Gael Garcia Bernal e neo politicucci a 5 Stelle con signore al seguito, pure agghindate male (ché se vai in veste istituzionale per ricordare “come la cultura e in particolare il cinema siano uno straordinario veicolo di promozione del territorio e del turismo, e che siano intimamente connessi alla promozione dell’export”, e la promozione del territorio, puoi anche passare dalla porta invece che dal tappeto rosso, anzi devi).

Chissà se hanno capito – o lo capiranno mai – che svilendo la creatività con  l’imposizione di contenuti edulcorati e pilotati oltre che in senso culturale anche in quello sociale e politico stanno ghettizzando ulteriormente tutte le categorie che vorrebbero includere. Io ad esempio, potrei sentirmi non inclusa, perché tra un po’ gli stronzi che ancora pensano con la loro testa e giudicano quello che gli pare e come gli pare e rivendicano il diritto a escludere chi gli pare saranno in minoranza. Riprendiamoci la cattiveria, siamo sottorappresentati.

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