É ancora notte in Catalogna. É una notte cominciata nove anni fa, il 28 giugno del 2010, quando la Corte Costituzionale spagnola ha affondato lo Statuto di Autonomia approvato ed in vigore da quattro anni.
Fu un colpo pesante per le aspirazioni nazionali della società catalana. Lo statuto del 2006 poneva, nei fatti, le basi di un nuovo patto di convivenza tra Madrid e Barcellona, superando l’assetto dell’immediato post-franchismo. Era sostenuto dalla grande maggioranza delle forze politiche catalane, approvato da un referendum in Catalogna e da entrambi i rami del Parlamento spagnolo. Contro quello statuto fu sollevata un’eccezione di costituzionalità dal Partito Popolare. Dopo quattro anni di dibattito, nel 2010, la Corte Costituzionale spagnola, con una maggioranza di sei contro quattro, riformulò quattordici articoli ed impose un’interpretazione restrittiva di altri ventisette articoli. Lo Statuto di autonomia risultava completamente svuotato e per di più tra le prerogative dichiarate incostituzionali per la Catalogna, alcune erano e restano in vigore negli statuti di altre regioni, come i Paesi Baschi.
La ricentralizzazione del 2010 rappresentò il punto di rottura – la fine del concetto di una Spagna dove unità e pluralità potessero andare a braccetto. Se fino a quel momento la tenuta della Catalogna, nell’ambito della statualità spagnola, poteva essere assicurata da ordinarie concessioni di stampo federalista, la revoca dello statuto del 2006 cambiò totalmente l’atteggiamento catalano. Non ci poteva più essere fiducia in riforme ottriate, né nella possibilità di evoluzione della Spagna verso una confederazione multinazionale. Da quel momento, per usare la popolare espressione del cantautore Ovidi Montllor, ormai non potevano più bastare le briciole: serviva “il pane intero”.
Partì da lì il processo indipendentista catalano che molti hanno sperato potesse articolarsi secondo modalità scozzesi, ma che invece ha visto l’opposizione tetragona di Madrid a qualsiasi forma di riconoscimento.
Il resto è storia nota. Le vittorie indipendentiste alle elezioni catalane del 2012, del 2015 e del 2017, il referendum “consultivo” per l’indipendenza del 2011, quello “preparatorio” del 2014, e poi quello “vincolante”, dal punto di vista catalano, ma non riconosciuto dalla Spagna, del 1° ottobre 2017. Il 27 ottobre 2017 il Parlamento catalano votava la dichiarazione unilaterale di indipendenza. Ne sono seguiti la repressione, gli arresti, gli esili e sei mesi di sospensione dell’autogoverno catalano.
In questi giorni la notte della Catalogna è particolarmente scura. Oriol Junqueras, vicepresidente catalano deposto da Rajoy, siede a Madrid al banco degli imputati. Lo stesso in cui nel 1935 sedette Lluis Companys, presidente indipendentista della Generalitat catalana, che più tardi sarà fatto fucilare da Franco. Junqueras è in carcere da un anno e mezzo e sulla sua testa pesa una richiesta di condanna a 25 anni di prigione per ribellione e sedizione. Con lui altri undici imputati che rischiano pene tra i 7 ed i 25 anni; tra questi i ministri del deposto governo catalano, la presidente del deposto Parlamento ed i presidenti delle due principali associazioni politico-culturali catalaniste. Le accuse mosse ai politici catalani non sono state riconosciute dalla giustizia di altri Paesi europei, come Belgio e Germania, che hanno respinto le richieste spagnole di estradizione per Carles Puigdemont e per gli altri leader indipendentisti in esilio. Al tribunale di Madrid, tuttavia, la storia sarà diversa. É difficile prevedere che la statualità spagnola possa fare ai “ribelli” alcuno sconto. Chi ha scelto – come Oriol Junqueras, Carme Forcadell, Joaquim Forn e gli altri – di farsi arrestare per difendere una certa idea di libertà e di democrazia lo sapeva bene ed ha messo tutto in conto.
Junqueras nella sua appassionata deposizione ha rivendicato la responsabilità politica dell’organizzazione del referendum e della successiva dichiarazione di indipendenza, affermando, tuttavia, che niente di quanto compiuto può rappresentare un reato. Non può esserlo, dal suo punto di vista, un’azione politica portata avanti con mezzi esclusivamente pacifici e ricercando, in ogni passaggio, la conferma del mandato popolare. Si è appellato a princìpi universali e fondamentali, quali il diritto all’autodeterminazione ed alla libertà di espressione ed azione politica, oltre che alla sovranità ultimativa dei cittadini sulle grandi decisioni politiche ed istituzionali – princìpi di democrazia sostanziale che non possono essere negati dalla democrazia formale.
Ma nei giorni del processo giudiziario ai leader indipendentisti, ad aumentare il carico di tensione sulla Catalogna si è aggiunta la convocazione di nuove elezioni legislative a livello spagnolo per il 28 aprile. A precipitare il ricorso al voto è stata proprio la rottura tra il premier Pedro Sánchez ed i partiti indipendentisti catalani che hanno bocciato la finanziaria del governo. Sánchez, per non scoprirsi a destra, dopo la secca sconfitta rimediata dai socialisti in Andalusia, ha depotenziato e sostanzialmente neutralizzato l’offerta di dialogo al governo della Catalogna. Al tempo stesso, tuttavia, ha continuato a chiedere ai partiti indipendentisti un sostegno per l’approvazione della finanziaria, che pure garantiva alla Catalogna un aumento dell’allocazione di fondi (per quanto comunque a livelli inferiori rispetto al Pil catalano ed alla contribuzione della Catalogna in termini di imposte). L’offerta di Sánchez aveva l’obiettivo di ricondurre i catalani in un solco di “normalità autonomista” e di un operato ordinario nell’ambito dello Stato spagnolo semplicemente offrendo un po’ più di spesa pubblica. É un’offerta che, tuttavia, non poteva essere accettata dai due partiti catalanisti presenti al Parlamento di Madrid, perché non è evidentemente quella la prospettiva per la quale l’attuale governo catalano ha ottenuto il mandato elettorale dei suoi cittadini e per la quale Carles Puigdemont è in esilio e Oriol Junqueras e gli altri sono in carcere.
Si va, dunque, a nuove elezioni per le Cortes Generales spagnole che, per quanto inevitabili, nell’immediato, per la causa catalana rappresentano più un rischio che un’opportunità. La questione è che gli indipendentisti catalani hanno vinto tutto quello che, all’interno della democrazia spagnola, potevano vincere: tre elezioni consecutive per il Parlamento catalano ed il controllo di quasi tutti i municipi della Catalogna. Ma questo esaurisce tutti gli spazi democratici a loro disposizione; non c’è niente di più che possano vincere per dimostrare di rappresentare il popolo della Catalogna. Il voto a “livello spagnolo” per i catalani non è, evidentemente “contendibile”. Per quanto i catalani siano chiamati ovviamente alle urne, la loro consistenza numerica rispetto alla totalità degli elettori spagnoli e la divaricazione tra le dinamiche politiche catalane e quelle spagnole fa sì il loro voto sia sostanzialmente irrilevante. La Catalogna risulterà di colore differente sulla mappa, ma non avrebbe possibilità di fermare la formazione di una maggioranza “spagnolista” a Madrid animata da intenti “vendicativi”. Viste da Barcellona le elezioni spagnole non saranno un esercizio di democrazia; saranno semplicemente un voto in cui – in maniera perfettamente “legale” naturalmente – due lupi ed un agnello decideranno cosa mangiare a cena.
Intendiamoci, infatti. Oggi la Catalogna non rischia solamente di non poter fare passi avanti nel senso dell’autogoverno. Rischia, specialmente nel caso di una maggioranza “andalusa” – cioè tra Popolari, Ciutadanos e Vox – la sospensione indefinita dell’autogoverno, destinata probabilmente a durare fino al completamento di una ricentralizzazione dello Stato che andrebbe a revocare anche le competenze storiche dell’autonomia catalana.
Si tratterebbe di un’azione senza precedenti contro i diritti di una minoranza etnica e linguistica in Europa; come se da un giorno all’alto fosse “revocato” il Galles o il Canton Ticino, lo statuto di autonomia dell’Alto Adige o la Comunità Germanofona del Belgio. Va da sé, che il successo di un governo legato a posizioni di intransigente nazionalismo spagnolo farebbe tramontare anche la possibilità di un atto di clemenza nei confronti dei politici catalani “alla sbarra”.
Insomma, i catalani si giocano tutto. Il sogno di un nuovo Stato da un lato; ma dall’altro la prospettiva di perdere anche tutto quello che hanno fatto, dalla morte di Francisco Franco ad oggi, per poter parlare senza vergogna la propria lingua, per ricostruire la propria identità e per essere “nazione.” Nei tribunali e nelle urne spagnole hanno già perso. I rapporti politici e numerici sono troppo evidentemente contro di loro. Ma la causa dell’autodeterminazione catalana ha anche delle frecce al proprio arco. Dei leader d’altri tempi, disposti al sacrificio, all’offerta del proprio corpo ed in grado di contrapporre la loro idealità e la loro umanità ad un’oppressione che si nasconde dietro le spoglie di un asettico legalismo costituzionale. Ed un popolo che ormai da anni sta dando una prova straordinaria di determinazione e di mobilitazione civile pacifica e che – è prevedibile – non sarà facile da fermare. Comunque andranno le cose, la questione catalana durerà ancora anni. E con essa le speranze e le sofferenze di una comunità nazionale che cerca il suo posto in una nuova Europa. La notte è ancora destinata ad essere lunga ma, pur nella piena consapevolezza delle difficoltà, la speranza di poter dar vita a soluzioni costituzionali ed istituzionali innovative resta viva e deve essere condivisa da tutti coloro che in Occidente ritengono che il consenso dal basso dei popoli debba in definitiva prevalere sull’ineluttabilità dello status quo.