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L’uomo del Colle dice sì al memorandum BRI. L’Italia tra i Paesi Ue che spingono l’Europa tra le braccia cinesi

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Dopo che il Quirinale ha di fatto messo il suo bollino d’approvazione al memorandum d’intesa con la Cina che verrà firmato a fine mese, dovrebbe essere chiaro che il problema va molto oltre il governo gialloverde, il ministro Di Maio e il sottosegretario Geraci. C’è un establishment politico ed economico molto più ampio che lavora da anni a questo risultato. Fonti del Quirinale, al termine di una colazione di lavoro con esponenti dell’Esecutivo dove sono state esaminate le implicazioni dell’accordo sulla nuova Via della Seta, hanno spiegato che il memorandum viene ritenuto “molto meno pregnante di tanti altri siglati bilateralmente da altri Paesi europei e le regole d’ingaggio italiane molto più severe e stringenti del documento dell’Ue”. Naturalmente si guarda “con attenzione” alle preoccupazioni Usa, ma si ricorda anche che il 5G “non farà parte del memorandum”. Davvero, non ci sarà alcun cenno alle reti di telecomunicazioni? Ci permettiamo di dubitare. Le stesse fonti hanno ricordato un passaggio in particolare dell’intervento del presidente Mattarella al Business Forum Italia-Cina del 2017 a Pechino, alla presenza di Xi Jinping: “L’Italia – affermò allora – ritiene di poter concorrere alla costruzione di una nuova Via della Seta”. Insomma, è un’adesione che viene da lontano, sostenuta attivamente da pezzi influenti di ceto politico di centrosinistra, come dimostrano gli interventi di queste ore di Romano Prodi, e dal Gotha economico e industriale del nostro Paese, sia pubblico che privato (si vedano le prese di posizione di Confindustria, Cdp, Sace, Fondazione Italia-Cina).

L’importante è che tutto si faccia di concerto con l’Ue – qualsiasi cosa ciò significhi. E in queste ore da Bruxelles è arrivato un sostenziale via libera (pazienza, anzi meglio se anche Roma, oltre a Berlino, si brucia un po’ con l’amministrazione Trump…): “Gli stati membri non possono negoziare accordi in contraddizione con la legislazione europea, per questo non siamo preoccupati”.

Dal governo e, ora, anche dal Quirinale, si continuano a minimizzare i risvolti politici e geopolitici della firma che tanto preoccupano Washington, pretendendo che il memorandum abbia una valenza esclusivamente economica e commerciale. Le cose non stanno così e a spiegarlo, in una intervista di pochi giorni fa a StartMag, è l’ex ministro dei lavori pubblici nel I Governo Prodi Paolo Costa, favorevole all’adesione dell’Italia alla BRI, che definisce “il nuovo volto della politica estera della Cina, che presto supererà in termini economici gli Stati Uniti. Una potenza mondiale con la quale tutti dovranno fare i conti prima o poi. Di qui l’importanza della BRI, che si configura come una strategia politica, dichiarata e definita, di lungo periodo“. Le infrastrutture serviranno a “valorizzare una relazione, quella Europa-Asia, che in questo momento è la più importante, è allo stesso livello della relazione trans-pacifica e nettamente superiore rispetto a quella transatlantica”. Si tratta, di fatto, di aprire, rendersi disponibili, a un disegno geopolitico che si pone come apertamente antagonista di quello americano, quello dell’Eurasia.

Alle obiezioni si risponde che altri 13 Paesi Ue hanno già firmato memorandum di intesa con Pechino sulla BRI. Vero, ma non si può negare che l’Italia sia il primo Paese europeo di peso, il primo del G7 ad aderire e, soprattutto, nessuno ospita la quantità di basi militari Usa e Nato presenti sul nostro territorio, e ciò giustifica le preoccupazioni americane. I vantaggi economici sono minimi e, soprattutto, tutti da verificare, a fronte di immediati danni diplomatici e politici.

Guardiamo alle tensioni tra Stati Uniti e Germania (che ha spalle molto più larghe delle nostre). Attraverso l’ambasciatore a Berlino, l’amministrazione Trump minaccia sanzioni nei confronti delle imprese coinvolte nel progetto Nord Stream 2 con la Russia e di interrompere la condivisione di informazioni di intelligence nel caso in cui le cinesi Huawei e ZTE partecipino allo sviluppo della rete 5G tedesca. L’avvertimento sulle conseguenze di affidare a queste compagnie un ruolo nel 5G devono ritenersi estese a tutti gli alleati. Il caso Italia non è da meno ed è già arrivato all’attenzione del segretario di stato Pompeo e del consigliere per la sicurezza nazionale Bolton: rischiamo anche noi lo stop alla condivisione di informazioni di intelligence (terrorismo compreso) e alla consegna di materiale sensibile, come attrezzature militari, nei nostri porti. Rischiamo di compromettere i rapporti tra le nostre aziende e quelle americane e il nostro ruolo nella Nato.

Il problema è che in Europa, e anche in Italia, sembra non esserci consapevolezza di quanto sia mutata a Washington la percezione della minaccia di Pechino. Se fino a pochi anni fa la rivalità sembrava poter rientrare nella prospettiva di una cogestione di fatto della governance globale, fino a immaginare un G2, oggi le tensioni tra Stati Uniti e Cina sembrano ripresentare una frattura geopolitica e strategica più profonda, che ricorda la divisione del mondo in due blocchi tra Usa e Urss, quando a pochi Paesi era permesso di restare “non allineati”. Oggi l’America di Trump chiama gli alleati europei a rinnovare la propria scelta di campo. E gli accordi, i livelli di cooperazione e interdipendenza con Pechino che erano immaginabili, persino auspicabili qualche anno fa, quando la nuova Via della Seta è stata annunciata, suscitano a Washington un allarme che in Europa si fatica a comprendere. Gli europei dovrebbero quindi astenersi in questa fase dal compiere passi ulteriori, soprattutto dai risvolti geopolitici, almeno fino a quando non sarà più chiaro lo sbocco dei negoziati commerciali Usa-Cina in corso. A meno che, come temiamo, la scelta deliberata non sia quella di inseguire l’illusione di una equidistanza, un’autonomia strategica che rischia però di far scivolare l’Europa nell’orbita cinese.