Nei giorni scorsi, i parlamenti di Skopje e Atene hanno finalmente posto fine alla decennale querelle che ha bloccato l’accesso dell’ormai ex FYROM a Nato e Unione europea. L’accordo siglato lo scorso luglio, denominato Trattato di Prespes, ha consentito a Skopje e Atene di accettare la modifica del nome dell’ex Repubblica Jugoslava di Macedonia in Macedonia del Nord. Il 6 febbraio, il primo storico passo è stato compiuto: il Consiglio del Nord Atlantico ha firmato il Protocollo di Accesso per la Macedonia del Nord in presenza del ministro degli esteri macedone Nikola Dimitrov. Skopje potrà quindi avviare l’integrazione nell’Alleanza Atlantica, aggiungendo un ulteriore, fondamentale tassello al raggiungimento della stabilità nei Balcani. Ma partiamo dal principio.
Perché la Grecia è stata sempre contraria all’uso del nome “Macedonia” da parte di Skopje? Principalmente per motivazioni politiche e territoriali. Infatti la Costituzione macedone, oggi in procinto di essere modificata proprio in base agli accordi, poteva essere interpretata come espansionistica, rivolgendosi a una etnia macedone sparsa fra l’ex Repubblica jugoslava, la Grecia e la Bulgaria, nonché a una lingua macedone. Atene inoltre contestava l’utilizzo di simboli e personalità storiche da parte della dirigenza macedone, appartenenti però alla cultura greca, come Alessandro Magno, il padre Filippo II e Aristotele, legati alla storia della Macedonia classica. Tuttavia, l’attuale etnia macedone presente nella regione, secondo diversi studi, pare sia arrivata ben 1.000 anni dopo le vicende riguardanti questi personaggi. Con gli anni ’40, prima con gli antifascisti e poi con i comunisti di Tito, la questione macedone raggiunge un livello di tensione ulteriore: l’allora segretario di Stato americano, Edward Stettinius Jr., in un memorandum del 1944, affermò infatti che le pretese macedoni erano una copertura per delle rivendicazioni territoriali ai danni della Grecia, in ottica di un’espansione a sud della Jugoslavia di Tito.
Anche la Bulgaria, in misura minore, ha subito alcuni discorsi nazionalisti macedoni. Infatti, il distretto di Blagoevgrad è noto anche come Macedonia-Pirin, parte della regione storica macedone. I timori sono gli stessi di quelli greci: rivendicazioni linguistiche, etniche e l’appoggio di potenze straniere. Altri fattori appartengono alla storia contemporanea: agli inizi del XX secolo, un movimento noto come Organizzazione Rivoluzionaria Interna Macedone (IMRO per i macedoni, VMRO per i bulgari), si pose l’obiettivo di raggiungere l’autonomia della Macedonia e della regione di Adrianopoli, ma successivamente divenne un’organizzazione al servizio degli interessi bulgari nella regione balcanica. Dopo la Prima Guerra Mondiale, L’IMRO si guadagnò il titolo di ultima organizzazione che tentava di modificare i confini della regione macedone tra Serbia/Jugoslavia e Grecia, oltre che essere considerata un’organizzazione terroristica e mafiosa internamente la Bulgaria. Nonostante non esista più formalmente, ancora oggi alcuni partiti nazionalisti hanno preso questo nome: parliamo del VMRO in Bulgaria e VMRO-DPMNE in Macedonia del Nord. Insieme alla “paternità” del movimento, anche due figure importanti dell’organizzazione come Yane Sandanski e Gotse Delschev (a entrambi sono state intitolate delle cittadine bulgare poste ai confini con la Grecia) sono divenuti oggetto di discordia tra Sofia e Skopje.
Nei mesi conclusivi del 2018, il primo ministro macedone Zoran Zaev ha subito pressioni non indifferenti, alcune causate anche da sue uscite maldestre: al fallimento del referendum consultivo dello scorso settembre (nonostante il 91 per cento dei voti fosse favorevole al cambio di nome e all’ingresso nella Nato e nell’Ue, non è stato infatti raggiunto il quorum del 50 per cento) e alle ingerenze dello stesso presidente macedone Gjorge Ivanov (vero orchestratore del fallimento del referendum, con un invito all’astensione accolto dalla maggioranza della popolazione), si è aggiunta l’opposizione del primo partito, proprio il VMRO macedone, contrario alla ratifica del Trattato. Il VMRO ha contrastato in maniera netta il Trattato, colpito anche dal tradimento di 8 parlamentari che hanno votato favorevolmente alla modifica della Costituzione, con il partito che li ha accusati di corruzione. Per calmare le acque e, forse, per tenersi stretti gli 8 parlamentari, Zaev ha rilasciato alcune dichiarazioni “nazionaliste”, esaltando termini come “nazionalità macedone” o “lingua macedone”, sino ad arrivare ad affermare che in futuro il macedone verrà insegnato nelle scuole bulgare e greche, scatenando l’ira di Sofia e causando una forte crisi di governo ad Atene. Il ministro della difesa bulgaro ha negato l’esistenza stessa di una lingua macedone, dichiarando la possibilità che la Bulgaria voti contrariamente all’ingresso della Macedonia del Nord nella Nato e nell’Ue. Addirittura il presidente della Repubblica bulgaro, il generale Rumen Radev, ha rifiutato l’accordo greco-macedone sul nome “Macedonia del Nord”, affermando anch’egli che il riconoscimento di una lingua macedone possa essere una miccia per riaccendere il caos nei Balcani.
Fortunatamente la crisi greca è rientrata e, nonostante le forti proteste nel Paese e in Parlamento, il Trattato (rivisitato) è stato ratificato. Complice un ridimensionamento della retorica di Skopje, anche la Bulgaria pare si sia acquietata, considerando l’avvio del Protocollo di Accesso della Nato, tuttavia la Macedonia del Nord dovrà abbandonare qualsiasi rivendicazione per poter accedere a Nato e Unione europea e procedere a una vera stabilità nei Balcani. Per divenire un membro effettivo dell’Alleanza Atlantica, ogni Paese membro della Nato dovrà nei prossimi mesi ratificare il Protocollo di Accesso: proprio Sofia ha già minacciato ritardi, se non addirittura la mancata ratifica, a meno che la retorica di Skopje non si fermi definitivamente.
Il Trattato di Prespes non è però solo un accordo fra Grecia e Macedonia. Nato e Ue hanno promosso quest’accordo per garantire la stabilità della regione, minacciata da una serie di pericoli reali. I Balcani sono teatro di un vero e proprio scontro a più livelli tra gli stessi Stati dell’area e attori esterni come Russia, Cina e Turchia (pur essendo un Paese Nato). I politici balcanici hanno infatti chiesto più volte a Nato e Unione europea di velocizzare e rinforzare l’integrazione dei Balcani nell’area occidentale: appelli sono stati lanciati dal primo ministro greco Tsipras, il primo ministro bulgaro Boris Borissov, nonché ministri vari come il ministro della difesa del Montenegro Ivanovic (ricordiamo che il Montenegro è stato vittima di un tentato colpo di stato nei confronti del primo ministro nel 2017, con Mosca il principale indiziato).
La Russia pone diverse attenzioni all’area balcanica: oltre a storici legami etno-linguistici (sia russi che popolazioni balcaniche sono slavi), Mosca ha interessi energetici che attraversano l’area, nonché interessi energetici concorrenziali (progetti come Eastmed cercano di ridurre la dipendenza energetica europea dal gas russo). Il Cremlino inoltre agisce come agente destabilizzatore per tentare di frenare quanto possibile l’integrazione dei paesi dell’area all’Alleanza Atlantica. Mosca è stata spesso attaccata dai politici locali per numerose interferenze: Zoran Zaev, in un’intervista a BuzzFeed nel luglio dello scorso anno, affermò infatti che imprenditori greco-russi vicini al Cremlino hanno tentato di far cadere i negoziati del Trattato di Prespes attraverso sabotaggi e corruzioni.
La Russia è sempre stata contraria al Trattato, essendo questo la condizione per l’ingresso della Macedonia nell’Ue e nella Nato, due circostanze in contrasto con le strategie balcaniche di Mosca. Le intenzioni russe si sono palesate prepotentemente nell’ultimo periodo: Mosca ha infatti minacciato più volte di bloccare il Trattato presso le Nazioni Unite e subito dopo il fallimento del referendum, il governo russo ha supportato le opposizioni nazionaliste (in particolare il VMRO) e la figura del presidente Ivanov, con il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov che dichiarava la “fine” del Trattato e, successivamente, accusava l’ambasciatore statunitense in Macedonia, Matthew Palmer, di essere il vero primo ministro macedone. La minaccia di Mosca, ovvero il passaggio del Trattato al Consiglio di Sicurezza e il conseguente veto russo, non sono stati accettati da Skopje e Atene, che hanno dichiarato che l’accordo si svolge sotto l’egida delle Nazioni Unite e che quindi il passaggio attraverso il Consiglio di Sicurezza non è necessario.
Se l’influenza russa punta alla mancata integrazione dei paesi balcanici all’Alleanza Atlantica, la Cina mira all’inserimento di quest’area nella sua sfera di influenza economica e commerciale. Diversi esponenti europei, tra cui Angela Merkel, hanno infatti espresso più volte preoccupazione per la condotta commerciale cinese, spesso e volentieri contraria ai principi europei di libero mercato. La “CEEC-China” o “16+1”, che vede appunto partecipi 16 Paesi europei, di cui 11 membri Ue e 5 della regione balcanica, è un’iniziativa cinese per l’integrazione economica, tecnologica e scientifica con questi stati.
Un episodio risulta esemplificativo: nel giugno 2017, la Grecia pose il veto a una mozione dell’Unione europea presso le Nazioni Unite che accusava la Cina di azioni illegali nei confronti di attivisti e dissidenti; ciò aizzò asprissime critiche nei confronti di Atene, con diplomatici, attivisti e associazioni per i diritti umani che accusavano il governo di Tsipras di minare il ruolo dell’Ue come difensore dei diritti umani. Tralasciando la questione, il veto greco pose un secondo problema. Gli ingenti investimenti cinesi in Grecia potevano aver influenzato la politica greca e, di conseguenza, ciò rendeva l’Unione europea vulnerabile. Non è un caso che dal 2017 l’Unione ha avviato numerosi progetti infrastrutturali in Grecia, tali da ridurre l’influenza cinese nel Paese (basti pensare ai gasdotti TAP, Poseidon e Eastmed che passeranno tutti per il territorio ellenico).
“Stiamo scrivendo la storia, perché abbiamo creato un futuro migliore in una regione piena di conflitti”. Con queste parole il ministro degli esteri macedone Nikola Dimitrov ha commentato la decisione del Consiglio del Nord Atlantico di avviare il Protocollo di Accesso per la Macedonia del Nord. Una frase ad effetto che però nasconde una verità: la regione è, come detto, teatro di scontri a più livelli, e quanto prima e meglio avviene l’integrazione nell’Alleanza Atlantica e nell’Unione, prima i Balcani potranno raggiungere una stabilità tale da evitare tensioni che potrebbero sfociare in conflitti veri e propri.