Tra dicembre e gennaio, quando ancora nessuno aveva sentito parlare del coronavirus, c’era già chi metteva in guardia dai rischi e invitava a non farsi trovare impreparati. Una menzione speciale va a tre persone: Nassim Nicholas Taleb, l’autore de “Il cigno nero” – in cui, oltre alla crisi del 2008, prevedeva che presto il mondo sarebbe stato messo in ginocchio da un’epidemia virale –, Joe Norman, fellow del New England Complex System Institute – uno dei pochi istituti di ricerca al mondo che analizza fenomeni come violenze etniche, crisi economiche e sistemi sanitari, da un punto di vista interamente oggettivo – e Balaji Srinivasan, venture capitalist e imprenditore nel campo della bio-informatica.
Un altro argomento che mette d’accordo queste tre menti brillanti è la distribuzione del potere. Tutti e tre sostengono che, al fine di ottimizzare i meccanismi decisionali di una società e minimizzarne le “esternalità” negative, sia necessaria una massiccia decentralizzazione del potere. Taleb, per esempio, ha pubblicato diversi papers in cui dimostra e commenta come un’impostazione localista della società permetta di affrontare ottimamente l’incertezza e la fragilità tipiche della realtà estremamente complessa in cui viviamo oggi. Norman ha scritto di come la decentralizzazione sia necessaria per mitigare i rischi – come può essere, per l’appunto, un’epidemia – e aumentare il livello di sicurezza verso di essi. Srinivasan, infine, insiste per lo più sui grandi risultati della decentralizzazione in campo tecnologico, ma applica spesso lo stesso principio anche al sistema politico. È stato proprio un suo recente commento, infatti, che ci ha ispirati.
Considerando le possibili conseguenze che il coronavirus potrà avere sulla nostra società, l’imprenditore californiano ha messo in luce come, già ora, la decentralizzazione sta avendo la meglio sulla centralizzazione statale: per via dell’incompetenza legata a quest’ultima, infatti, molte regioni – o addirittura singole municipalità – all’interno di uno Stato stanno adottando misure per isolare i propri risultati virtuosi nell’affrontare la diffusione del virus dai fallimenti in atto in altre parti dello stesso Paese. Negli Usa, per esempio, singoli stati come Alaska, Florida, Hawaii e Rhode Island, stanno richiedendo che chiunque arrivi da un altro stato – specialmente se è zona rossa – stia in quarantena per 14 giorni. Anche in Italia si sta assistendo a casi simili, anche se in scala più ridotta: ha fatto il giro del mondo, per esempio, la notizia che il piccolo paesino di Monteleone di Puglia, in provincia di Foggia, abbia deciso di bloccare gli accessi per evitare che i circa milla abitanti possano essere contagiati.
Srinivasan, poi, riflette sul fatto che molte decisioni burocratiche temporanee hanno spesso la qualità di diventare permanenti, come diceva il buon Milton Friedman e come ha dimostrato il collasso repentino dell’Urss ad inizio anni ’90 – avvenuto in seguito ad un iniziale indebolimento della centralizzazione sovietica durante gli anni ’80 a cui il regime ha poi cercato di porre rimedio, fallendo, nel 1991. Ci si chiede, dunque, se Stati Uniti e Unione europea, seppure con le loro differenze, siano destinati a seguire lo stesso percorso: durante quest’ultimo decennio, infatti, diversi avvenimenti hanno indebolito il potere e la coesione di queste due strutture federali.
Da un punto di vista liberale, la decentralizzazione del potere è sempre benvenuta, poiché ne limita la portata e gli abusi rendendo i decisori molto più responsabili, aumenta le capacità democratiche di ogni singolo individuo e sviluppa una forte competizione fiscale e burocratica tra comuni e regioni. Non a caso la Svizzera, l’unico Paese al mondo con una struttura molto decentralizzata – i comuni hanno più potere dei cantoni che, a loro volta, han più potere del governo federale –, è considerata il modello liberale e democratico, per eccellenza. Non a caso, inoltre, la civiltà occidentale è esplosa quando, quasi ovunque in Europa, la frammentazione di potere era immensa: l’età più florida, nel vecchio continente, la si è vissuta tra Medioevo e Rinascimento quando le città-stato e i principati erano la forma più comune di organizzazione politica e sociale, mentre ha cominciato a declinare nel momento in cui il potere è stato centralizzato con la creazione dei moderni stati-nazione – il caso italiano è, probabilmente, il più esemplificativo di tutti.
In un momento, come quello attuale, in cui i governi centrali stanno utilizzando la scusa della crisi per avocare a sé ancora più poteri, dobbiamo, dunque, accogliere con entusiasmo ogni tentativo di decentralizzazione. Non è, infatti, una questione minore: ne va delle nostre libertà e delle nostre capacità democratiche. È compito di ognuno di noi sostenere queste istanze localiste. Abbiamo un’occasione enorme per riaffermare l’importanza delle singole comunità, nei confronti di entità nazionali o universali, astratte, costruite e imposte dall’alto. Non perdiamola, anzi, sfruttiamola appieno: parafrasando gli americani, è il momento di “Make Localism Great Again”.