Ci saranno volute casse di Maalox in queste ore per molti dei nostri politici e commentatori che denunciando l’irresponsabilità e la pazzia del presidente Trump si aspettavano di vedere confermate le proprie previsioni, o meglio desideri, secondo cui la decisione di eliminare Soleimani avrebbe dovuto scatenare una inarrestabile escalation o costargli una cocente umiliazione. Nulla di tutto questo è accaduto. Anzi, anche il più ossessionato degli anti-trumpiani, se gli è rimasto un briciolo di onestà intellettuale, dovrebbe ammettere che il presidente Usa ha giocato nel migliore dei modi una mano di poker molto delicata con Teheran, vincendola. Non di azzardo si è trattato, ma di rischio ben calcolato.
La rappresaglia iraniana di mercoledì notte contro le basi Usa in Iraq è stata o una sceneggiata o un fallimento. Zero vittime tra il personale americano e iracheno, diversi missili lontani dai bersagli, danni contenuti alle strutture. Secondo alcuni media, tra cui Cnn, Teheran avrebbe preannunciato i suoi raid alle autorità irachene, le quali avrebbero allertato gli americani. Insomma, gli iraniani avrebbero preso tutte le precauzioni perché i loro missili non provocassero vittime, mentre già pochi minuti dopo l’attacco il ministro degli esteri Zarif si affrettava a far sapere che per loro la questione era chiusa lì, a posto così.
La conferma è arrivata ieri sera dal segretario alla Difesa Usa Mark Esper: su 16 missili lanciati, 12 a segno, 11 sulla base di al Asad e uno a Erbil. È convinzione del Pentagono che l’Iran non abbia intenzionalmente evitato di uccidere soldati americani, ma ha avvertito del raid per evitare vittime irachene. Appreso dell’attacco imminente dagli iracheni, riferiscono sempre fonti del Pentagono, “non ci ha sorpresi, sapevamo già che stava arrivando”.
Che sia stata più una sceneggiata o più un fallimento, che abbiano deliberatamente o meno evitato vittime americane, poco cambia. Certamente è stata un’operazione tutta ad uso e consumo di propaganda interna, tanto che all’annuncio dei Pasdaran di 80 morti e centinaia di feriti nessuno ha dato credito al di fuori dei media iraniani – e, purtroppo, italiani.
Piuttosto, c’è da capire se nel panico per una reazione Usa nella notte gli iraniani non abbiano addirittura abbattuto un volo civile appena decollato da Teheran (quasi 180 morti). Insospettisce naturalmente la coincidenza, ma soprattutto che gli iraniani abbiano già fatto sapere che non daranno la scatola nera dell’aereo alla compagnia ucraina e alla Boeing.
In ultima analisi, due gli obiettivi centrati da Trump: il regime iraniano ha incassato la perdita di Soleimani, l’architetto e comandante della sua espansione regionale; e ha rivelato la sua debolezza, mostrando di temere una ulteriore rappresaglia Usa e un confronto militare diretto, memore della fine toccata ai precedenti regimi in Afghanistan, Iraq e Libia. Dunque, il presidente Usa ha azzeccato la proporzione del colpo e ristabilito la deterrenza. Certo, questo non significa che gli iraniani abbandoneranno le loro malefiche attività nella regione, che rinunceranno al terrorismo e al programma nucleare, ma è probabile che almeno per un po’ si asterranno dal compiere e pianificare azioni eclatanti dirette contro gli Usa. Ora sanno che le linee rosse di Trump, al contrario di Obama, sono credibili e che oltrepassarle comporta un alto prezzo.
L’eliminazione di Soleimani è un game changer perché questa volta l’uso dei suoi proxies per colpire gli avversari non ha risparmiato Teheran da una rappresaglia che l’ha colpita direttamente. Non sul suo territorio, ma al cuore del suo sistema di potere, il cervello della sua strategia di espansione. Una grave perdita sotto molteplici aspetti: militare, politico, simbolico. Per autorità e carisma conquistati nei decenni sul campo, Soleimani non sarà facilmente sostituibile.
Un vero e proprio cambio di paradigma, delle regole del gioco, quello del presidente Trump. Se per quarant’anni il regime iraniano non è mai stato oggetto di una rappresaglia diretta per gli attacchi delle sue milizie contro militari o civili americani, la notizia oggi è che quei tempi sono finiti.
Per questo, come ha osservato Lee Smith, “l’uccisione di Soleimani è un’operazione molto più importante di quelle mirate contro il leader dell’Isis Al Baghdadi o persino Bin Laden, perché probabilmente darà forma alle azioni future di uno stato, non alla rotazione della leadership di gruppi terroristici”.
Opinione condivisa dal generale David Petraeus, l’ex comandante Usa in Iraq e Afghanistan artefice della strategia vincente di counterinsurgency nel dopoguerra iracheno, nonché ex direttore della Cia: “È impossibile sopravvalutare l’importanza di questa particolare azione. È più significativa dell’uccisione di Osama bin Laden o persino di al Baghdadi. Soleimani era l’architetto e il comandante operativo dello sforzo iraniano per consolidare il controllo della cosiddetta mezzaluna sciita”, un territorio che dall’Iran arriva al Libano passando per Iraq e Siria. È responsabile dell’uccisione di oltre 600 soldati americani, oltre che di molti militari e civili di altri Paesi, e “l’avversario più formidabile che abbiamo affrontato per decenni”.
Vinta una mano, però, ora bisogna vincere la partita. Nel discorso pronunciato ieri dopo il raid di risposta iraniano, Trump ha ricordato gli obiettivi. “All’Iran non verrà mai permesso di avere un’arma nucleare”. La posta in gioco è sempre quella: la rinuncia vera, definitiva e verificabile al programma nucleare. Ma non solo: che l’Iran si comporti come un Paese “normale”, cioè la smetta con le sue attività destabilizzanti e il suo imperialismo nella regione. Trump non cerca il regime change tanto meno una guerra contro l’Iran. Bisogna sempre tenerlo a mente nel valutare le sue mosse. È stato eletto sulla promessa di chiudere le “infinite guerre” in Medio Oriente, non per aprirne di nuove. L’eliminazione di Soleimani, come dimostra anche la reazione-show iraniana, non contraddice i suoi obiettivi e la sua visione (non isolazionista ma nazionalista, jacksoniana). Non c’è alcuna svolta neocon, ma come ha spiegato il generale Petraeus “uno sforzo molto significativo per ristabilire la deterrenza, che ovviamente non era stata finora sostenuta dalle risposte relativamente insignificanti” alle provocazioni iraniane. Un potere di deterrenza militare che nessun leader occidentale sembra oggi voler più usare, ma senza il quale è molto difficile ottenere risultati in Medio Oriente come altrove.
Trump ha ereditato una situazione compromessa dai suoi predecessori, dai decisivi errori dell’amministrazione Bush nel dopoguerra iracheno e dalla disastrosa strategia di Obama – ritiro dall’Iraq e appeasement con Teheran – che hanno offerto all’Iran campo libero per espandersi nella regione.
Alla strategia della “massima pressione” dell’amministrazione Usa dopo il ritiro dal Jcpoa, una pressione economica, il regime iraniano ha risposto con una escalation militare, male interpretando come debolezza la prudenza del presidente Trump. Della scorsa primavera le aggressioni alle petroliere nello Stretto di Hormuz. A giugno Trump decise di bloccare all’ultimo momento un raid aereo in risposta all’abbattimento di un drone Usa. A settembre l’attacco a uno dei più grandi impianti petroliferi sauditi, anch’esso rimasto senza risposta. Solo dopo l’uccisione di un contractor, il 27 dicembre, ha deciso di colpire gli Hezbollah iracheni responsabili di numerosi attacchi con razzi e mortai contro le basi americane in Iraq. Ma non è bastato a ristabilire la deterrenza. Il 31 dicembre l’assalto all’ambasciata Usa di Baghdad da parte di centinaia di miliziani sciiti fatti penetrare nella Green Zone ha fatto scattare l’allarme rosso, riportando alla memoria le umiliazioni del 1979, il sequestro dei diplomatici Usa a Teheran, e del 2011, l’uccisione del console americano a Bengasi.
Avevamo criticato a settembre scorso su Atlantico la decisione del presidente Trump di non rispondere militarmente alle provocazioni iraniane, che rischiava di essere percepita a Teheran come debolezza, incoraggiando i Pasdaran ad alzare il tiro – esattamente come avvenuto. Consapevoli che più avrebbero alzato il tiro, per esempio prendendo di mira personale americano, più sarebbe stato “difficile calibrare una reazione sufficientemente forte da dissuadere Teheran dal proseguire con la sua escalation, ma non al punto da scatenare un conflitto su larga scala”. Per non voler rischiare una guerra, si correva il rischio di renderla inevitabile. E avevamo anche ipotizzato tra le possibili opzioni di rappresaglia per ristabilire la deterrenza “uno strike chirurgico diretto a decapitare i vertici dei Pasdaran, Soleimani in primis”.
Ora, proprio per la severità del colpo, l’eliminazione di Soleimani, lungi dallo scatenare una escalation come molti temevano, potrebbe rappresentare il primo atto di una de-escalation. Ristabilita la deterrenza, Trump ha annunciato ieri nuove sanzioni per rinvigorire la politica della “massima pressione”, che negli ultimi mesi ha rischiato di deragliare sotto i colpi dell’escalation militare iraniana. Il regime change, pur non essendo un suo obiettivo, resta un esito possibile per collasso interno. E chissà che a Teheran, anche considerando la gravità della situazione economica e l’ostilità della popolazione, non si faccia strada l’idea di privilegiare la mera sopravvivenza del regime rispetto alle ambizioni atomiche e all’espansione regionale. Non prima, comunque, di vedere se Trump verrà o meno rieletto a novembre prossimo.