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I marchi DOP e IGP: i rischi delle gabbie regolatorie

Le certificazioni IGP e DOP sono state al centro dell’operato del Ministero per le politiche agricole e forestali durante la passata legislatura, alla rincorsa della ‘tutela del prodotto italiano’ nell’unico modo in cui la politica ha la pretesa di farlo: con altre leggi.

I prodotti legati a tali marchi seguono un processo dettagliatamente descritto all’interno degli omonimi disciplinari, dove si precisa: origine delle materie prime, fasi di preparazione, operazioni a cui sottoporre gli ingredienti, additivi ammessi, natura degli additivi, fino anche alle dimensioni, alla consistenza, al colore, la forma e infine anche le caratteristiche organolettiche finali che si suppone la merce debba avere.

Il disciplinare diventa così il libretto delle istruzioni, la sola formula magica che permette l’ottenimento dell’alimento, al suo interno si può apporre il marchio, al di fuori il prodotto è da considerarsi “similare” nella migliore della ipotesi, una vera e propria contraffazione nelle altre.

Si potrebbero scrivere fiumi di parole riguardo al significato della parola “tradizione”, secondo l’avviso dell’autore però essa è, con buona approssimazione, l’esito di una stratificazione progressiva di piccole innovazioni che hanno avuto successo, e che, tanto per fare un esempio, ci hanno permesso di passare dal vinum romano come veniva prodotto a Pompei nel 79 D.C. al Barolo piemontese dei giorni nostri.

Il tema della riflessione però è piuttosto il ruolo deleterio che la sovraregolamentazione esercita nei settori produttivi. La creazione di un disciplinare di produzione come quello adottato per i marchi DOP e IGP, infatti, pretende di cristallizzare in eterno, o quasi, tutto ciò che riguarda lo sviluppo e la creazione del prodotto stesso. Oltre ad essere un non-senso storico del tutto arbitrario (chi ha deciso che tale alimento o specialità un giorno dato ha esaurito la possibilità di evolversi, modificarsi ed adeguarsi agli input del mercato e dei consumatori della propria epoca?) rappresenta un inutile ostacolo alla libertà dell’imprenditore di fare il proprio mestiere, che è quello di adattarsi alle esigenze del cliente e del mercato.

Il settore dei prodotti vegetariani, ad esempio, rimarrà sempre chiuso al Grana Padano che prevede, da disciplinare, l’aggiunta di un caglio di origine rigorosamente animale. E questo a prescindere dal profilo organolettico (il sapore) del prodotto finale; verrebbe pure da chiedersi allora: a che pro tutti questi paletti se un prodotto esattamente identico in tutte le sue sfumature qualitative può essere fatto apportando delle modifiche ragionate al processo così come era stato fissato?

Impedire qualsiasi modifica vuol dire ovviamente anche non poter rendere i processi più efficienti, non poter ridurre le emissioni di anidride carbonica, non poter ridurre il consumo di acqua all’interno degli impianti, non poter produrre merce di formato diverso da quello fissato; quindi se, mettiamo il caso, l’acquirente richiedesse delle forme di Parmigiano quadrate per facilità di trasporto o di taglio nei macchinari, non sarebbe possibile accontentarlo e questo, occorre ripeterlo, in modo del tutto svincolato e avulso dalle caratteristiche finali del prodotto che il consumatore può testare in prima persona.

Un’obiezione dal senso comune che potrebbe essere fatta è allora quella riguardo alla sicurezza alimentare, alla salubrità dell’alimento, poiché l’idea di tradizione (intesa ‘come lo faceva mia nonna’, non nel senso di patrimonio comune di cultura di un popolo che si esprime anche attraverso l’enogastronomia) è sempre associata a quella di genuinità, ovvero che un prodotto che rispetti tale filiera produttiva IGP o DOP sia più sano. Ovviamente non è necessariamente così, il grado di salubrità di un prodotto è dato dalle analisi degli inquinanti in esso presenti. Nessun aceto balsamico di Modena sarà più sano di un altro poiché le uve provenienti da Modena hanno intrinsecamente meno inquinanti di quelle provenienti da Bratislava o da Sidney, forse saranno più adatte alla produzione del dato aceto, ma queste sono caratteristiche che si devono appurare a prodotto finito, lontano dalle ideologizzazioni alimentari.

Un prodotto che non si evolve e si tiene al passo coi tempi è destinato a morire, diventare culto per pochi intenditori e nulla più. Provate voi stessi a presentarvi al mercato e dire ai passanti che da oggi venderete esattamente le stesse cose fino alla fine dei tempi, quale pensate che sarà la loro risposta? Ecco, noi italiani stiamo facendo questo.