Se l’ipotesi di extrema ratio ha prevalso, dopo sei giorni, sei votazioni e un solo candidato “bruciato” in aula, occorre chiedersi se fosse davvero l’extrema ratio e non, al contrario, la prima scelta per gran parte del Parlamento. E noi di Atlantico Quotidiano pensiamo, non da oggi, che sia proprio così. La rielezione di Mattarella era l’opzione preferita certamente della sua area politica, probabilmente di gran parte della maggioranza di governo, nonché un’ambizione personale ben dissimulata dal diretto interessato.
Tre fattori hanno determinato la vittoria di Mattarella sull’altro sfidante alla carica di viceré d’Italia, Mario Draghi: due anomalie che potremmo definire “sistemiche” e una fatale scelta politica, che su Atlantico Quotidiano avevamo segnalato da tempo.
1) La prima anomalia sistemica è il precedente Napolitano, ovvero lo sdoganamento della rielezione del capo dello Stato uscente. Non prevista, ma nemmeno esplicitamente esclusa dalla Costituzione, è però chiaramente in contrasto con la figura stessa del presidente della Repubblica così come delineata dalla Carta: una carica non di indirizzo politico, un limite minimo di età (50 anni), un mandato lungo 7 anni (che con la rielezione arriverebbe a 14 anni), l’assenza di un limite al numero di mandati consecutivi, presente praticamente ovunque sia prevista la rieleggibilità di un capo di Stato.
Con il precedente Napolitano, il presidente della Repubblica uscente diventa inevitabilmente un candidato a succedere a stesso, condizionando, che lo voglia o meno, la partita per la sua successione. E addirittura, la centralità di questa istituzione nel nostro sistema politico, fa di lui un candidato particolarmente forte, rappresentando uno status quo appetibile e alla portata per la propria area politica.
Sebbene nel 2013 l’ipotesi di una rielezione di Napolitano fosse entrata nel dibattito politico prima della scadenza del suo mandato, essa arrivò dopo che la maggioranza di centrosinistra riuscì a bruciare ben due candidati della levatura di Franco Marini e Romano Prodi. Non sfuggirà agli osservatori più attenti che la rielezione di Mattarella ha avuto più il sapore di un copione già scritto. Fin dall’inizio Mattarella appariva, insieme a Draghi, tra i favoriti. Oltre 100 voti per Mattarella si sono materializzati ben prima che si arrivasse al presunto impasse. Se davvero non fosse stato disponibile, come per mesi aveva lasciato intendere, avrebbe fatto trapelare la sua irritazione. Invece, silenzio dal Colle, mentre i voti per lui salivano come una marea… Diversi i leader politici che tra venerdì sera e sabato mattina sembravano avere quasi fretta di chiudere su Mattarella, nonostante fino a quel momento fosse stata bocciata nelle urne una sola candidatura, di centrodestra, e nemmeno una di centrosinistra fosse stata almeno tentata.
Un altro indicatore infatti è che il segretario del suo partito, Enrico Letta, non abbia tentato di costruire un’intesa su alcun nome della sua area politica, dando di volta in volta come indicazione di voto scheda bianca o astensione, fino al suo invito ad ascoltare la “saggezza del Parlamento” quando centinaia di parlamentari, contravvenendo alle indicazioni, avevano scritto sulla scheda il nome di Mattarella. Bizzarro anche l’entusiasmo di Letta e dei suoi a rielezione avvenuta, più consono alla celebrazione di un trionfo che di una soluzione da ultima spiaggia…
Tutto lascia francamente supporre che Mattarella fosse il vero e unico candidato del Pd fin dall’inizio, come più volte e da mesi abbiamo scritto su Atlantico Quotidiano: il Pd non voleva Draghi, voleva fortissimamente Mattarella.
L’unico problema era come far emergere la soluzione Mattarella spontaneamente, come, appunto, extrema ratio. Serviva il caos: bocciare o bruciare qualsiasi nome alternativo, senza proporne altri. Catenaccio e attesa, paziente, lungo la riva del fiume…
Abbiamo quindi assistito per mesi ad una pantomima da parte dello stesso Mattarella e del suo partito, con tanto di sceneggiata finale con scatoloni, materassi, e “fuga” a Palermo ben esibiti a favore di telecamere.
Fino a poche settimane fa Mattarella spiegava, in discorsi ufficiali e via retroscena dei quirinalisti, che la sua indisponibilità alla rielezione era basata su motivi di diritto. Su tutti, ricorderete il discorso del febbraio scorso in occasione della commemorazione del presidente Antonio Segni, nel quale ricordò come lo stesso Segni fosse a favore di una modifica costituzionale che introducesse la “non immediata rieleggibilità” del presidente della Repubblica. Tutti interpretarono giustamente quella citazione come una contrarietà, motivata in punta di diritto, alla sua rielezione.
Ora, invece, motivando la sua decisione di accettare la rielezione, il presidente Mattarella ha tenuto a rendere nota la sua rinuncia a prospettive personali, come se fossero state queste ultime il motivo della sua iniziale indisponibilità. Evaporati nello spazio di 24 ore tutti i dubbi di conformità della rielezione al disegno costituzionale che lui stesso aveva richiamato più di una volta nei mesi passati.
La nostra lettura, basata sulle contraddizioni appena citate e sui passaggi chiave degli ultimi quattro anni del suo mandato, è che Mattarella abbia tenuto in vita la legislatura, nonostante fosse politicamente esaurita nel 2019, per letteralmente accompagnarla verso questo esito. L’unico scopo era evitare a tutti i costi il voto anticipato, dal quale sarebbe potuta emergere una maggioranza di destra in grado quindi di eleggere un presidente di destra nel 2022. Quirinale e vincolo esterno Ue erano gli unici due obiettivi da blindare prima del possibile diluvio.
Al Pd quindi bottino pieno con il minimo sforzo, cioè senza nemmeno doversi assumere l’onere di affossare la candidatura Draghi: si riprende il Quirinale con Mattarella, l’unica opzione in grado ricompattare l’alleanza con i 5 Stelle, far deflagrare il centrodestra, dire addio all’ultimo simulacro di bipolarismo e porre le basi per la “maggioranza Ursula” (con l’aiuto di una legge elettorale proporzionale di cui già si parla), nonché di incastrare Draghi a Palazzo Chigi durante l’anno di campagna elettorale.
La legislatura partita con l’affermazione di sovranisti e populisti nelle urne, si chiude con i 5 Stelle e la Lega “normalizzati”, Salvini e Conte ridimensionati, e la strada spianata per una coalizione di governo saldamente europeista, con Mattarella viceré al Quirinale per altri 7 anni.
Andrebbe ricordato tuttavia che Mattarella è stato rieletto da un Parlamento che numericamente non corrisponde più a quello previsto dalla Costituzione per effetto della riforma che ha ridotto il numero di deputati e senatori, confermata da un referendum popolare nel settembre 2020. La questione, sebbene di natura politica, una volta eletto il nuovo Parlamento nel 2023 dovrebbe essere posta.
Dal momento che il rinnovo del presidente della Repubblica era previsto nel 2022, ad un solo anno dall’elezione del Parlamento nei numeri previsti dalla riforma, sarebbe stato opportuno sciogliere le Camere subito dopo la ratifica referendaria da parte del corpo elettorale. Il 20-21 settembre 2020 gli italiani si sono espressi per un Parlamento di 400 deputati e 200 senatori. Oggi, 30 gennaio 2022, si ritrovano con un presidente della Repubblica eletto per i prossimi 7 anni (fino al 2029) da un Parlamento di 630 e 315.
In sostanza, già oltre un anno fa gli italiani hanno espresso la volontà che ad eleggere il capo dello Stato sia un collegio non più di oltre 1.000 grandi elettori, ma di circa 650. Opportuno quindi sarebbe che il mandato di Mattarella (il secondo, peraltro) terminasse con l’insediamento del nuovo Parlamento di soli 600 membri che verrà eletto nel 2023. Altrimenti, gli italiani dovrebbero aspettare ben 9 anni prima di avere un presidente della Repubblica eletto con il numero di grandi elettori che hanno deliberato. Tutto legittimo, ma un piccolo problemino di opportunità politica lo intravediamo…
2) La seconda anomalia sistemica che ha portato a questo esito è quella che abbiamo posto all’attenzione dei nostri lettori lo scorso 23 dicembre, commentando la conferenza stampa di fine anno nella quale il presidente del Consiglio Draghi si è di fatto autocandidato al Quirinale formalizzando ai partiti il suo ricatto politico. Un premier che praticamente ha posto al Parlamento una questione di fiducia non su un decreto o una manovra di bilancio, ma sulla propria elezione al Colle: o me, o il diluvio, ovvero la caduta del governo.
Una anomalia che ha prodotto lo spettacolo inedito di un premier che apre le consultazioni con i partiti sulla sua elezione al Colle e, contemporaneamente, come fosse già eletto, sulla sua successione a Palazzo Chigi, senza ovviamente poter dare ai leader della maggioranza alcuna garanzia sul nuovo governo.
Pensando di far leva sulla paura di andare a casa dei partiti e dei singoli parlamentari, Draghi in realtà li ha spinti verso l’unica soluzione in grado di neutralizzare il suo ricatto – Mattarella – dal momento che per la maggioranza sarebbe stato impossibile sia risolvere in pochi giorni l’equazione nuovo governo con Draghi al Quirinale, sia accordarsi su un altro nome per il Colle senza spaccarsi, come preteso dal premier per continuare. Scrivevamo già il 23 dicembre:
“Se nelle prime tre votazioni Draghi non dovesse farcela, la maggioranza per non spaccarsi dovrebbe subito giocarsi la carta del presidente uscente. Il che, al Pd, andrebbe benissimo. Ed ecco come si tornerebbe alla casella di partenza: Mattarella al Quirinale, Draghi a Palazzo Chigi.”
Nelle analisi mainstream si parlerà solo della sconfitta di Matteo Salvini, ma il fallimento di Draghi è secondo solo a quello del centrodestra, che però già non esisteva più. Non è riuscito a salire al Colle ed ora si trova, ammaccatissimo, a Palazzo Chigi, a capo di un governo balneare e a forte rischio logoramento personale. Da capire, ora, se il premier sarà disponibile a finire ostaggio delle schermaglie elettorali tra i partiti, tanto più con la tempesta in arrivo, tra spinte inflattive, venti di guerra e fine delle politiche monetarie accomodanti della Fed e, presto, anche della Bce. Uno dei motivi probabilmente che lo induceva a cercare riparo al Quirinale. Oppure, se tra qualche settimana o mese approfitterà di un “incidente” politico per svignarsela…
Comunque, anche Draghi ha giocato molto male le sue carte: oltre al citato ricatto, che gli si è ritorto contro, ha sottovalutato l’ostilità del Pd alla sua elezione, dato invece troppo per scontato il sostegno della Lega e di Forza Italia, e infine trascinato oltre misura l’emergenza sanitaria e le relative misure, autoritarie e incostituzionali, mentre gli avrebbe fatto gioco avviare un riconoscibile percorso verso una vera normalità (mission accomplished).
Ma soprattutto, egli non ha intravisto la trappola in cui si stava infilando accettando l’incarico un anno fa. Avrebbe senz’altro potuto puntare direttamente al Quirinale senza passare per Palazzo Chigi. Ha accettato, invece, di buttarsi nella mischia di un Parlamento logoro e instabile come un isotopo radioattivo, rischiando di bruciarsi, come poi avvenuto. Chiamato dopo l’ennesima crisi, per evitare di consegnare governo e Quirinale alle temutissime “destre”, Palazzo Chigi si è rivelato per lui una polpetta avvelenata invece di un trampolino di lancio verso il Colle più alto: presidente, resti, deve finire il lavoro che ha iniziato.
Sembrava un percorso già segnato, liscio come l’olio: un anno di servizio al Paese e poi l’incoronazione. Ma già un anno fa avevamo avvertito che non sarebbe stato per nulla facile per lui trasferirsi direttamente da Palazzo Chigi al Colle, per la ostilità del Pd, che vuole per sé quella carica, e per la difficile ricerca di un sostituto con un Parlamento per nulla intenzionato a rischiare di andare a casa anzitempo. Dunque, nonostante le garanzie implicite o esplicite che può aver ricevuto, non è da escludere che Mattarella offrendogli Palazzo Chigi l’abbia voluto in realtà mettere fuori gioco per la corsa al Quirinale, o almeno complicargliela non poco.
3) E veniamo infine al fatale errore politico che ha portato alla rielezione di Mattarella, quello della Lega. Il piano di far parte del governo Draghi per entrare nella partita del Quirinale pensando addirittura di intestarsi l’elezione dello stesso Draghi al Colle e, magari, persino di sostituirlo a Palazzo Chigi, il tutto contro il Pd, è miseramente fallito. Ma è stato folle solo averlo immaginato, tanto era irrealistico. E, anzi, disarticolando il centrodestra più di quanto non fosse già disarticolato, ha contribuito alla inevitabilità della rielezione di Mattarella.
Questo giochino è costato alla Lega, nel frattempo, il sostegno incondizionato al governo. Sono riusciti ad intestarsi solo le misure incostituzionali, repressive e anti-scientifiche adottate da Draghi e Speranza, la desertificazione del comparto turismo e la transizione green che sta mettendo in ginocchio l’intero mondo produttivo a colpi di bollette insostenibili.
Il problema del centrodestra, non da oggi, è che ormai è una coalizione fantasma. Governa molte regioni, ma solo perché l’elezione diretta dei presidenti di Regione favorisce le coalizioni e la tenuta delle maggioranze. A livello nazionale i tre partiti non solo non governano insieme da ben 11 anni, ma a ben guardare non sono stati insieme nemmeno all’opposizione: alcuni infatti sono entrati a far parte di governi di sinistra o li hanno sostenuti.
Come avevamo scritto nei giorni precedenti la prima votazione, il centrodestra entrava già liquefatto nella partita per il Colle. Matteo Salvini ha forse peccato di ingenuità e presunzione, pretendendo di affermare la sua leadership su qualcosa che già non c’era più. Era francamente impossibile trovare un accordo su un nome capace di tenere unito il centrodestra e al tempo stesso la maggioranza di governo. Un vicolo cieco.
L’unico modo per i partiti di centrodestra di tentare (non riuscire, la garanzia non c’è mai) di far eleggere una personalità della loro area, era rischiare di far saltare il governo. Ma erano disposti Lega, Forza Italia e centristi a mettere in gioco le prospettive politiche su cui avevano investito così tanto con la nascita del governo Draghi, e Giorgia Meloni a rinunciare all’occasione di impallinare la leadership di Matteo Salvini? Evidentemente no, quindi si erano già consegnati al nemico prim’ancora di cominciare a giocare.
Come si è poi visto in aula, una candidatura di centrodestra sarebbe stata sabotata non solo dall’esercito di Draghi presente in tutti e tre i principali partiti, ma anche da Forza Italia e i centristi il cui unico obiettivo era non mettere a rischio la tenuta della maggioranza. Il game over l’ha fischiato Enrico Letta quando ha calato la minaccia “così salta il governo” davanti alla candidatura della Casellati. E da lì in poi, c’era un solo nome, come abbiamo spiegato poco fa, che poteva dare la garanzia di salvaguardare la maggioranza: Mattarella.
Al dunque, sfumata la sua candidatura, Berlusconi – come al solito ormai nell’ultimo decennio – ha dato luce verde ad una figura di sinistra in grado di offrirgli un minimo di garanzie personali. Forza Italia e i gruppuscoli centristi da anni ormai ragionano come cespugli del Pd e hanno come prospettiva politica la coalizione “Ursula”. E la Lega? Anche nella corsa al Quirinale si è divisa tra LegaEuro, che avrebbe votato Draghi, e LegaSalvini, che invece a Draghi ha resistito e, almeno di questo, gliene va riconosciuto un merito.