Il cartello della censura: nuove prove della collusione Big Tech-Governo Usa

Social media usati come proxy del governo per la censura. Nuovi documenti rivelano una relazione “molto intima”: messaggi, incontri regolari, addirittura “portali speciali”

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  • Big Tech, FBI e DHS collaborano regolarmente per censurare notizie e opinioni giudicate dannose per le politiche governative, classificandole come “disinformazione”.
  • Scambi di messaggi, incontri mensili, addirittura “portali speciali” a disposizione di funzionari governativi per richiedere la soppressione di contenuti.
  • Il ritornello è spesso stato: “Sono compagnie private, possono fare quello che vogliono”. Ma adesso salta fuori che queste compagnie private starebbero effettivamente operando come proxy del governo per la censura.

Negli ultimi dieci anni o giù di lì, con l’affermarsi delle piattaforme social media come strumento principe per la diffusione di notizie, siamo stati introdotti a nuovi termini come “fake news”, “disinformazione”, “bots”, “troll farms”, e alle conseguenti discussioni su come distinguere tra verità e disinformazione online.

Su a chi spetta il compito di vigilare, su come tracciare la linea tra disinformazione e legittimo dissenso, tra censura e libertà d’opinione e d’espressione. Abbiamo sentito parlare delle tensioni tra governi e Big Tech, e dei sospetti di connivenza tra di essi, con tutti i dubbi sulla separazione di poteri e sui check & balance della democrazia che ne derivano.

Ma su cosa avvenisse davvero dietro le quinte del grande gioco della manipolazione delle informazioni finora il panorama è rimasto nebuloso, limitato a congetture e speculazioni, e spesso prigioniero di interessi e partigianerie politiche.

Si è pensato che la censura dei social media prendesse di mira più i conservatori dei progressisti perché a Silicon Valley sono generalmente di sinistra. Che il fatto che alcuni personaggi controversi, come il cospirazionista Alex Jones, venissero messi al bando lo stesso giorno da tutti i social fosse dovuto ad una sorta di reazione a catena, ma senza una vera coordinazione.

Una relazioni “molto intime”

Ma oggi centinaia di documenti del governo degli Stati Uniti, in parte ottenuti tramite fuga di notizie dall’interno di agenzie federali, in parte declassificati nel corso di una causa per violazione dei diritti costituzionali intentata contro l’amministrazione Biden dallo Stato del Missuori tramite il suo procuratore generale Eric Schmitt, e riassunti in un reportage-inchiesta di The Intercept a firma Ken Klippenstein e Lee Fang, gettano una nuova e sinistra luce su quanto accaduto negli ultimi anni nel mondo della lotta alle “fake news”.

Emerge ora, oltre ogni dubbio, che le grandi piattaforme social media del Big Tech hanno avuto per anni quella che The Intercept descrive una relazione “molto intima” con il Federal Bureau of Investigation e il Department of Homeland Security. Una relazione in cui industria privata e governo federale collaborano su base regolare per censurare notizie giudicate pericolose, ma molto spesso solo sgradite alla politica, classificandole come “disinformazione”.

Quanto è “intima” questa relazione? In uno scambio di messaggi di testo con un alto funzionario della Homeland Security, Matt Masterson, ceo di Microsoft, raccomandava che “le piattaforme devono mettersi a proprio agio col governo”.

Vijaya Gadde, il “grande censore” di Twitter, ora messa alla porta da Elon Musk, una persona nota per essersi vantata di aver dato il via alla soppressione della storia del laptop di Hunter Biden sospendendo l’account del quotidiano New York Post durante le elezioni presidenziali americane del 2020 e per avere, infine, messo al bando Donald Trump, si incontrava mensilmente con il DHS per discutere come meglio censurare notizie considerate dannose per le politiche governative.

Di fatto, Gadde ha fatto parte della commissione di esperti che ha suggerito al DHS quali misure anti-disinformazione attuare, e sembra aver avuto interesse ad ampliare tali misure su scala globale, come rivelato da lei stessa in una videoconferenza ottenuta dall’organizzazione di giornalismo investigativo Project Veritas.

E Gadde non è un caso isolato. Nei mesi precedenti l’elezione presidenziale del 2020 compagnie del Big Tech – incluse Twitter, Facebook, Reddit, Discord, Wikipedia, Microsoft, LinkedIn e Verizon Media – si sono incontrate mensilmente con l’FBI e il DHS per discutere di come prevenire il diffondersi di “disinformazione” durante il periodo di campagna elettorale.

Facebook e Twitter crearono addirittura dei portali speciali attraverso i quali impiegati del governo potessero rapidamente richiedere la soppressione di contenuti.

Gli “Hunter Files” e la confessione di Zuckerberg

Nella sua apparizione dell’agosto scorso nel popolare podcast The Joe Rogan Experience, il ceo di Facebook, ora Meta, Mark Zuckerberg ha rivelato che fu l’FBI a contattare Facebook chiedendogli di sopprimere la storia del laptop di Hunter Biden.

A detta di Zuckerberg l’FBI giustificò la richiesta dicendo che la storia era “disinformazione russa”. Questa era anche la versione diffusa dalla stampa mainstream, che naturalmente, a differenza del New York Post, non subì nessun genere di censura da parte di Twitter e Facebook.

È in seguito stato confermato che la storia era vera. L’FBI stava investigando diversi sospetti contatti d’affari di Hunter Biden, figlio di Joe, secondo molti indizi contenuti nel laptop, nonché per il suo ex socio d’affari Tony Bobulinsky, in realtà suo prestanome, con compagnie energetiche cinesi, russe, ucraine, e kazake.

L’FBI perciò, pur avendo Hunter Biden sotto indagine, si premurò di cooperare con Twitter e Facebook perché non si venisse a sapere nel mezzo dell’elezione, marchiando la notizia come “disinformazione”, e così facendo trasformando una notizia vera in una falsa. Un vero e proprio cortocircuito degno di George Orwell.

Secondo The Intercept, a occuparsi di far sparire dai social media gli “Hunter Files” fu l’agente dell’FBI Laura Dehmlow, che ancora quest’anno si è incontrata con Twitter e JPMorgan Chase per raccomandare che “occorre una infrastruttura mediatica che possiamo hold accountable (richiamare all’ordine)”.

Da notare che Twitter è una piattaforma social, ma JPMorgan Chase è una banca. Perché l’FBI discute di “disinformazione” con una banca? La risposta che temiamo tutti è che si voglia passare dal “combattere la disinformazione” sui social a combatterla nei conti correnti, tramite l’esclusione dei disobbedienti dai servizi finanziari.

Non solo elezioni

Ma la campagna elettorale non era l’unico obiettivo degli sforzi combinati di governo federale americano e Big Tech. Oltre alle elezioni, tra gli altri soggetti sottoposti a scrutinio come “disinformazione” ci sarebbero questioni di salute pubblica (le origini della pandemia di Covid-19 e l’efficacia dei vaccini), temi ideologici (“racial justice”), debacle politiche (il caotico ritiro delle forze Usa dall’Afghanistan), e la politica estera (la natura del supporto americano all’Ucraina).

Non bisogna fare un grande sforzo per vedere che queste sono tutte cose che in democrazia fanno parte del dibattito pubblico, e quanto sia specioso e pericoloso che le informazioni e relative discussioni che vi ruotano intorno siano alla mercé di un cartello tra governo e monopolisti dell’informazione, operanti sulla base di termini elastici come “disinformazione”. Peggio ancora quando questo cartello si schiera apertamente da una delle due parti in una elezione.

Social surrogato per la censura

Il rapporto de The Intercept include anche un’intervista ad un anonimo agente dell’FBI che rivela di essere stato riassegnato dal suo usuale compito di tenere sotto controllo agenzie di intelligence straniere ad un progetto di monitoraggio di account social media americani durante l’Estate delle Rivolte del 2020.

“Ci sono sempre più indizi che funzionari dei poteri esecutivo e legislativo stiano usando le compagnie di social media come un surrogato per la censura” – scrive il professore di diritto della George Washington University Jonathan Turley citato da The Intercept – “È indiscutibile che il governo non può fare indirettamente ciò che gli è proibito di fare direttamente”.

Eh sì, perché negli ultimi anni, di fronte alla smaccata e discriminatoria censura delle informazioni su social media, siti web, o motori di ricerca che fossero, da parte del Big Tech, il ritornello è spesso stato: “Le compagnie private possono fare quello che vogliono”. Ma adesso salta fuori che queste compagnie private starebbero effettivamente operando come proxy del governo, come compagnie militari private in zona di guerra.

“Se funzionari del governo stanno dirigendo questa censura, – continua Turley- entra in ballo il Primo Emendamento”.

Come tutto è iniziato

Ma come è successo che agenzie di investigazione come l’FBI e il DHS, create per inseguire criminali, spie, e terroristi, siano finite a inseguire tweet? Secondo The Intercept:

“Ciò che era iniziato come una missione di combattere minacce esterne dopo l’11 Settembre si è spostato verso combattere la disinformazione, con la giustificazione che la radicalizzazione in patria può portare a problemi di salute pubblica e a violenza politica”.

Qual è stato il processo? Difficile avere un quadro completo con le informazioni in nostro possesso, ma possiamo forse iniziare una ricostruzione parziale.

Come abbiamo osservato nel nostro recente articolo sull’acquisto di Twitter da parte di Elon Musk, l’allarme per la “disinformazione” sui social media è iniziato intorno al 2015-2016, quando in seguito ad una serie di risultati elettorali non graditi (Brexit, Trump, etc), le élite occidentali hanno iniziato a temere la concorrenza di internet sui media tradizionali.

Risale a quel periodo l’invenzione del termine “fake news”, e il proliferare di rapporti di “centri studi” e think tank su come varie nefaste forze domestiche e straniere starebbero manipolando il pubblico. Esempio principe, naturalmente le ormai sfatate narrazioni di Russiagate e di Cambridge Analytica, secondo le quali sia l’elezione di Donald Trump che la Brexit sarebbero state opera di oscure manovre disinformative dei russi.

E risalgono a quel periodo i crescenti appelli alle piattaforme social media a “fare qualcosa per combattere la disinformazione”, e il crescente flirtare con la censura di Stato.

La CISA da Trump a Biden

Nel 2018 il presidente Trump, in risposta a diversi attacchi informatici subiti da infrastrutture chiave americane, firma il Cybersecurity and Infrastructure Security Agency Act, che crea una nuova divisione, la Cybersecurity and Infrastructure Security Agency (CISA), dedicata alla guerra cibernetica, in seno al Department of Homeland Security (DHS).

Con l’arrivo di Biden alla Casa Bianca, la nuova organizzazione si muove dall’inseguire hackers a inseguire la “disinformazione” in internet. Per giustificare una tale snaturazione della missione originale Jen Easterly, la nuova direttrice della CISA nominata da Biden, parlando a una conferenza nel 2021, sostiene che:

“Se il nostro compito è proteggere le infrastrutture critiche, e l’infrastruttura più critica di tutte è la nostra infrastruttura cognitiva. Perciò costruire quella resilienza alle informazioni false o cattive, io credo, è incredibilmente importante”.

L’uso di un tale pasticcio semantico ed epistemologico postmodernista da parte di un alto funzionario del governo potrà anche stupire chi non ha familiarità con l’amministrazione Biden, ma bisogna ricordare che, proprio in quel periodo (2021), il Congresso a guida Democratica faceva passare un piano infrastrutturale trilionario.

Data la difficoltà di far digerire al pubblico una tale spesa a debito, il piano ridefinì “infrastruttura” non solo strade, ponti, e dighe, come ci si aspetterebbe, ma una lunga lista di progetti sociali.

“La maternità pagata è infrastruttura! I servizi per l’infanzia sono infrastruttura! Le badanti sono infrastruttura!”, twittava la senatrice Kristen Gillibrand. In quel periodo, per il governo Biden, tutto era “infrastruttura”, compresa la circolazione di informazioni sgradite su social media.

La CISA, nata per fermare attacchi hacker contro la rete elettrica, si trasforma perciò in una creatura che monitora e cerca di dirigere l’informazione online.

Il “Ministero della Verità”

Ma se Biden voleva uno strumento di propaganda governativa mascherato da “lotta alla disinformazione”, perché semplicemente non ne ha creato uno invece di snaturare la CISA?

Beh, ci ha provato. Nell’aprile del 2022 il DHS lanciò la controversa Disinformation Governance Board, che doveva fare esattamente quello. La sotto-agenzia finì immediatamente sotto attacco da parte del Partito Repubblicano, di molti media, e di attivisti per la libertà d’espressione.

Soprattutto dopo che la sua direttrice designata, Nina Jankowicz, fu esposta come un personaggio meno che politicamente e ideologicamente neutrale.

Derisa come “il Ministero della Verità di Biden”, la DGB fu dapprima ridimensionata, e infine disciolta nell’agosto del 2022, ma non prima che i suoi compiti fossero consolidati nella CISA.

Interessante notare che sempre nell’aprile del 2022, l’Università di Chicago aveva organizzato insieme alla rivista di relazioni internazionali di area Democratica The Atlantic una conferenza intitolata “Disinformazione ed erosione della democrazia”.

Tra i convenuti un autentico gotha di personalità politiche, dei media, e dei social media, pure loro esclusivamente di area Dem (più due ex-GOP never-Trump di ferro a fare da contorno), capitanati da Barack Obama in persona. L’intero tema della conferenza verteva su come la democrazia sia in pericolo per la “diffusione organizzata di disinformazione”, e sulle strategie per salvarla tramite una collaborazione tra, appunto, politica, media, e Big Tech.

Nel corso dell’evento uno studente conservatore dell’Università, Daniel Schmidt, ha l’opportunità di chiedere ad Anne Applebaum se la classificazione degli Hunter Files come “propaganda russa” sia da considerarsi disinformazione. Applebaum liquida la domanda: “È irrilevante”.

Durante le elezioni, mentre la censura della storia era in atto, Anne Applebaum aveva pubblicato un pezzo proprio su The Atlantic, confermando che la storia era disinformazione russa, e circa un anno dopo un più lungo pezzo su come la Russia stesse diffondendo disinformazione negli Usa, nel quale elogiava l’operazione di soppressione degli Hunter Files.

A conferenza terminata Jeffrey Goldberg, l’editore in capo di The Atlantic e storico confidente e portavoce non ufficiale di Obama durante la sua presidenza, lamenterà che la sua conferenza sulla disinformazione è stata oggetto di, indovina indovinello, “disinformazione”.

In retrospettiva, la DGB era probabilmente un ballon d’essai per vedere se il pubblico avrebbe accettato un Ministero della Verità governativo. La risposta essendo evidentemente “no”, il cartello governo/Big Tech preferì tornare ad operare in sordina.

Modellare l’ecosistema informativo

Nel giugno del 2022 la stessa commissione di consulenza della CISA (che include diverse figure del Big Tech come la già nominata Vijaya Gadde), produsse un rapporto in cui raccomandava all’agenzia federale di aumentare il proprio ruolo nel “modellare l’ecosistema informativo“, e di monitorare “piattaforme social media di ogni dimensione, tv via cavo, media iper-partigiani, talk radio e altre risorse online”. In pratica tutto.

Questo allo scopo di fermare “il diffondersi di informazioni false”, che possano “minare le istituzioni democratiche chiave quali le corti, o altri settori quali il sistema finanziario, o misure di salute pubblica”.

La commissione raccomandava inoltre di filtrare le informazioni attraverso ong e think tank dediti al fact-checking “per evitare l’apparenza di propaganda governativa“.

Ecco cos’è il Deep State

Difficile non vedere in questo uno di quegli strani fenomeni, sempre più frequenti di questi tempi, in cui il governo chiede agli “esperti” cosa fare e gli esperti raccomandano di fare esattamente tutto quello che è già chiaro il governo vorrebbe fare.

Il Deep State viene spesso liquidato come una paranoica teoria della cospirazione, ma per Deep State non si intende una tavolata di cospiratori in cappuccio e maschera riuniti per decidere chi vincerà il Premio Oscar quest’anno.

Si intende invece proprio questo carosello di interessi e persone, governativi e privati, che spesso fanno su e giù tra il governativo e il privato, che si raccomandano tra di loro di fare quello che vogliono fare comunque, aiutandosi a vicenda per aggirare ostacoli istituzionali e check & balance.

Il tutto nella maggiore discrezione possibile e mantenendo un livello di negabilità plausibile nei confronti del pubblico.

Difficile anche vedere come quanto raccomandato alla CISA dagli esperti del Big Tech sia compatibile con la libertà di opinione, espressione, e stampa della quale l’Occidente fa un gran vanto, e che si suppone ci differenzi dalle autocrazie orientali come Russia e Cina.

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