Nelle ultime settimane, soprattutto in relazione alla simbiosi politica tra il presidente Usa Donald Trump e l’imprenditore visionario Elon Musk, alcuni notisti politici hanno iniziato ad introdurre il tema della c.d. tecno-destra, ravvisando nel connubio tra esponenti della destra politica e campioni dell’innovazione tecnologica una pericolosa espressione di autoritarismo illiberale ed anti-democratico.
Uno degli aspetti sfuggiti a questa rappresentazione, forse intenzionalmente, richiama un paradosso difficilmente spiegabile: i nuovi monarchi digitali professano un anarco-libertarismo assai spinto, sono fautori dello Stato minimo e si dimostrano ontologicamente iper-liberisti. Posizioni politiche ed ideologiche che pochi punti in comune hanno con le forme storiche del totalitarismo di destra.
Tanto è vero che la gran parte della comunità digitale Usa aveva, in precedenza, come riferimento sia operativo che simbolico i luoghi dello sviluppo tecnologico californiano per eccellenza, quel CaliforniTech tradizionalmente orientato verso il campo dei Democrats a stelle e strisce.
Tecno-destra e neo-feudalesimo
Si è occupato di recente del tema anche Andrea Venanzoni che, nel suo ultimo libro dal titolo omonimo, “Tecnodestra” appunto, ci offre una possibile soluzione all’apparente paradosso: secondo il saggista siamo, molto banalmente, di fronte ad una narrazione politica semplificata, costruita ad arte dalla macchina culturale di sinistra ed atta a confezionare un pret a manger concettuale facile da smerciare, nel raffinato bistrot informativo left-stream.
Altri intellettuali, afferenti al marxismo culturale, come l’ex ministro greco Varoufakis, qualche anno fa, avevano invece partorito il suggestivo concetto di tecno-feudalesimo sulla scorta del quale i signori delle grandi piattaforme tecnologiche, attraverso la manipolazione delle masse, estrarrebbero valore dai loro asset digitali con la stessa modalità di dominio attraverso cui i feudatari del Medioevo esigevano le rendite agricole dai loro vassalli.
Se non sembra esserci dubbio che ci muoviamo ormai dentro uno scenario globale, dove tecnica e politica tendono a sovrapporsi, fino ad ibridarsi in una singolare chimera tecno-politica, appare altrettanto verosimile che queste prese di posizione riflettono semplicemente gli ultimi colpi di coda del vasto mondo che si richiama al wokismo di marca occidentale.
Guerra culturale e fact checking
Siamo, dunque, nel pieno svolgimento di una guerra culturale cominciata oltre vent’anni fa nelle Università statunitensi d’élite, proprio dove nel secolo scorso prese vita il movimento del ’68. Oggi la woke guerrilla non si limita più alla cancel culture, al radicalismo ambientale da salotto (si veda la sacra trimurti Environment, Social, Governance), alla critical race theory o agli obblighi DEI (Diversity, Equality, Inclusion) ma si combatte direttamente sul piano delle scelte politiche che poi si manifestano sotto forma di soluzioni tecnologiche.
Uno degli ultimi episodi di questa guerra riguarda la recente dichiarazione di Mark Zuckerberg, ceo di Meta, circa l’abbandono delle azioni di fact-checking sulla piattaforma Facebook. Evento che ha fatto suonare l’allarme, nei santuari dell’ortodossia woke, per le ripercussioni che tutto ciò potrebbe avere sia a livello di opinione pubblica che di tenuta democratica, all’interno delle nostre società. Esempio lampante di una scelta dettata da ragioni squisitamente politiche che si traduce, però, in opzione squisitamente tecnica.
L’autoritarismo digitale cinese e la balena di DeepSeek
Da un versante del tutto diverso, quello degli Stati autoritari asiatici proviene, invece, un altro tipo di narrazione, non politica, apparentemente, ma tecno-efficientista.
Efficienza degli strumenti, economicità dei mezzi, rapidità nelle decisioni rappresentano i tratti distintivi dello storytelling made in China, che ci accompagnano ormai da un ventennio e che troviamo perfettamente incarnati nell’ultima scintillante piattaforma di IA creata dalla tecnostruttura pechinese: DeepSeek, intelligenza artificiale generativa con caratteristiche cinesi.
Laddove le caratteristiche cinesi preminenti, oltre ad efficienza ed economicità, si risolvono in una imbarazzante smemoratezza di fronte ad alcuni temi indigesti alla narrazione strategica di Pechino: vedere alla voce Tienanmen, Uiguri o Tibet.
La balena azzurra simbolo di DeepSeek, nel cui ventre si stanno rapidamente accumulando i big data planetari, risulta al momento essersi inabissata, in Italia, dopo l’intervento della nostra Autorità Garante per la Privacy che alcuni giorni fa l’ha bloccata, aprendo un’istruttoria e contestandogli, giustamente, l’opacità nel trattamento dei dati personali.
Dopo l’azione dell’Autority italiana, che si è mossa per prima, anche il Garante francese e quello irlandese hanno chiesto informazioni sull’uso dei dati alle società cinesi che fanno capo a DeepSeek e sembra che anche l’ente della Sud Corea si stia muovendo nella stessa direzione.
Non risultano, però, analoghe azioni da parte delle autorità di Pechino più interessate, probabilmente, a proteggere il loro modello, basato su autoritarismo digitale e sorveglianza di massa, che non i dati personali dei propri concittadini.