Più volte su Atlantico Quotidiano abbiamo trattato il tema del Digital Services Act (DSA), e del concreto rischio che quello nelle mani della Commissione europea sia uno strumento orwelliano per monitorare, controllare e condizionare il dibattito pubblico sulle piattaforme social, o per almeno provarci.
Ebbene, ci siamo. La Commissione europea, sebbene in scadenza, non ha perso tempo. Intende applicare la nuova normativa, sperimentare i suoi enormi poteri, capire fin dove può spingersi con la complicità dei governi e dei media tradizionali, che hanno un interesse convergente, incestuoso, nel controllo della narrazione sui social.
Cosa non perdonano a Musk
Ieri il commissario al mercato interno Thierry Breton ha aperto una procedura formale di infrazione nei confronti di X (ex Twitter), la piattaforma di Elon Musk. La prima procedura di infrazione dall’entrata in vigore del DSA. E si sapeva che il primo ad essere preso di mira sarebbe stato il social di Musk.
Qual è la colpa che sconta il fondatore di Tesla e SpaceX? Semplice: aver tolto il giocattolo Twitter alla cricca di sinistra woke che, come provano i Twitter Files, i documenti interni della società resi pubblici proprio da Musk, anche su mandato di agenzie governative applicava la censura su contenuti e utenti non allineati alla narrazione “ufficiale”, sia che si trattasse dei lockdown e dei vaccini, sia durante la campagna per le presidenziali 2020. Le prove sono innumerevoli, altamente consigliata la lettura del nostro speciale.
Appena acquisito Twitter, Musk ha subito avviato un nuovo corso basato su due linee guida fondamentali: ripristino di una piena, non selettiva libertà di espressione; lotta senza quartiere alla pedopornografia. Evidentemente due obiettivi che danno molto fastidio all’Ue. Tanto che la Commissione europea ha dichiarato guerra senza quartiere a Musk.
Intervistato da Nicola Porro ad Atreju, sabato scorso, Musk aveva spiegato alla platea come la libertà di parola sia più importante di fare soldi: “I profitti non contano se la civiltà collassa”, aveva risposto ad una domanda sulle perdite dell’ex Twitter dalla sua acquisizione della piattaforma. La libertà di parola è il “fondamento della democrazia. Se inizia la censura, allora la libertà di parola finisce”.
Le accuse di Breton
Il commissario Breton contesta a X la “sospetta violazione degli obblighi di contrasto ai contenuti illegali e alla disinformazione” – le solite fake news che come ciascuno sa sono ancor più diffuse e pervasive, e incontrastate, sui media tradizionali; la “sospetta violazione degli obblighi di trasparenza”; il “sospetto design ingannevole dell’interfaccia utente”.
“Il tempo in cui le grandi piattaforme online si comportavano come se fossero troppo grandi per preoccuparsene è giunto al termine”, afferma Breton in una nota minacciosa: “Ora disponiamo di regole chiare, obblighi ex ante, forte controllo, rapida applicazione e sanzioni deterrenti e utilizzeremo appieno i nostri strumenti per proteggere i nostri cittadini e le nostre democrazie”.
“State adottando misure contro altri social media? Perché se avete questi problemi con questa piattaforma, e nessuno è perfetto, gli altri sono molto peggiori”, è finora l’unico commento di Elon Musk via X. Ma forse alla Commissione europea dà fastidio che X abbia puntato su un sistema di fact-checking diffuso e “democratico” – e che si sta dimostrando efficace – come le community notes, anziché su agenzie specializzate colluse con i media tradizionali e Bruxelles.
L’avvertimento
Due mesi fa l’avvertimento del commissario Breton. “Ci risulta che Lei abbia commesso un reato. Alla luce di questo, Le richiediamo una risposta veloce, accurata e completa entro 24 ore, ricordandole che in caso decidessimo di aprire un’inchiesta sulle sue azioni Lei potrebbe subirne le conseguenze”. Questo il tono della lettera inviata il 10 ottobre scorso dal commissario europeo al proprietario di X.
Al post di Breton Musk rispondeva chiedendo di precisare: “Per cortesia ci indichi quali sono le violazioni a cui allude, in modo che il pubblico possa valutarle”. Quindi la risposta orwelliana di Breton: “siete al corrente delle accuse, le segnalazioni dei vostri utenti e delle autorità su contenuti fake e celebrazione della violenza”, sta a voi dimostrare che “you walk the talk” (traducibile in italiano in “praticare quello che si predica”). Ricordiamo che erano i primi giorni dopo l’attacco di Hamas a Israele. X avrebbe dovuto forse censurare i video delle atrocità di Hamas?
E Musk: “Compiamo le nostre azioni allo scoperto. Nessun accordo dietro le quinte. Si prega di pubblicare esplicitamente le proprie preoccupazioni su questa piattaforma”.
Un’arma di intimidazione
Il problema è che la definizione di “contenuto illegale” è così eterea ed eterogenea che in sostanza una piattaforma come X sarà sempre in violazione e pertanto ricattabile, e questo rivela il DSA per quello che è: uno strumento di intimidazione
Come ci ha spiegato l’esperto di privacy Matte Galt, il DSA viene spesso promosso dai commissari europei come Breton come una legge contro la “disinformazione”, ma nel testo di legge la parola disinformazione non viene mai neanche menzionata.
Il DSA è molto pericoloso per la libertà d’espressione perché nel calderone dei “contenuti illegali” ci può rientrare qualsiasi contenuto da cui possano derivare conseguenze negative, concrete o potenziali, sul processo elettorale e sulla pubblica sicurezza, o relativamente a violenza di genere, salute pubblica, o salute mentale e benessere delle persone. In pratica una serie di nozioni non definite, che possono voler dire tutto o niente.
Ma c’è dell’altro: il DSA attribuisce alla Commissione poteri unilaterali di censura verso le piattaforme in caso di “crisi” come guerre o pandemie. In sostanza, la Commissione da sola può decidere cosa può rimanere sulla piattaforma e cosa no, in determinati contesti.