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Stiamo costruendo noi stessi la dittatura dei social?

Sono gli utenti dei social a indirizzare il “mood”, oppure i social a influenzare sentimenti, opinioni, e a dettare tempi e modi?

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C’è un meccanismo nascosto nella comunicazione social. Se volessimo esaminare, con mente sgombra da preclusioni e pregiudizi di parte, cosa spinga qualche miliardo di persone nel mondo a comunicare i propri stati d’animo sui social media, dovremmo porci la fatidica domanda se sia nato prima l’uovo o la gallina.

Chi influenza chi

Se siano gli utenti dei social a indirizzare il mood, come si dice oggi, delle più importanti piattaforme di comunicazione cibernetiche globali (Facebook, Instagram, TikTok, Twitter primeggiano nel settore) oppure siano proprio i social ad influenzare certi sentimenti diffusi, è questione assai importante, anche se scarsamente dibattuta.

Se fosse vero il primo assunto, dovrebbe, almeno per logica, essere altrettanto vero che, nell’epoca pre-social, certe sensibilità collettive fossero inespresse e celate nelle pieghe del comportamento individuale. Non si spiegherebbe, infatti, come tanta esibizione di solidarietà condivisa per certi fatti di cronaca, soltanto oggi trovino compiuta espressione attraverso i like ed i retwit, la moderna manifestazione di consenso o dissenso dell’enorme fetta di popolazione che non ha il privilegio di poter esprimere pubblicamente la propria opinione.

Interazioni senza precedenti

Se ci pensiamo bene, soltanto vent’anni fa, a chi, parlando della gente comune, era dato d’interagire direttamente coi potenti della Terra e con le persone più in vista del mondo? A pochissimi, e con mezzi di comunicazione che non garantivano né la certezza di avere effettivamente interagito (si pensi ad una lettera spedita per posta) né di avere reso pubblica tale comunicazione, se il mittente lo avesse voluto.

Al massimo, ci pensavano le rubriche “riceviamo e pubblichiamo” dei giornali stampati ad amplificare, sia pure in ambito limitato, le considerazioni che Tizio o Caio decidessero di indirizzare alle persone che contavano all’epoca.

Oggi, lo riscontriamo ogni giorno, sono scomparse le massaie di Voghera, ormai del tutto prive della scusante di essere delle semplici massaie (come si chiamavano allora) e con l’aggravante di abitare nell’anonimato della Pianura Padana.

La comunicazione è globale ed il nostro pianeta è diventato quel “villaggio globale” che alcuni eccellenti pensatori, come Mihail Gorbacev, che inventò il termine, preconizzarono proprio negli stessi anni in cui cadeva il Muro di Berlino e nasceva Internet.

Mettiamo subito da parte le possibili strumentalizzazioni di parte e le considerazioni relative a complotti globali, nuovi ordini mondiali e “poteri forti” in genere; non già perché si possa escludere che qualcosa di vero possa esistere in tal senso, ma soltanto per meglio analizzare il fenomeno cognitivo che corre in rete, con la mente libera da possibili spiegazioni affrettate o di comodo.

Qui non si tratta di capire chi abbia fatto cosa, ma, semmai, di approfondire proprio questo “cosa”, ossia questo inedito fenomeno dell’opinione social, estesa su scala planetaria, che sembrerebbe rispondere a delle regole non scritte che la rendano, sì, potentissima e temibile, ma anche del tutto surrettizia e poco o niente indagata nei suoi presupposti.

La cosa più fenomenale (e pericolosa) che accade oggi è che si danno per scontati concetti, persino etici o religiosi, soltanto perché il web lo dice e troppi lo amplificano in modo del tutto acritico.

Assurdità della netiquette

Basti pensare alla cosiddetta netiquette, non si sa da chi compilata e con quale autorità e quale legittimazione avesse per farlo, secondo la quale, addirittura, scrivere una email o rispondere ad un post usando i caratteri maiuscoli è ormai universalmente considerato un gesto di grande maleducazione, perché corrispondente ad urlare a squarciagola. Qui ci siamo fritti il cervello.

È vero: anche nell’epoca delle lettere di carta col francobollo, si riteneva valido qualche principio non scritto, come il “domandare è lecito, rispondere è cortesia”, ma arrivare al punto che, senza avere scritto alcunché di offensivo o scorretto ci si vieti di scrivere in maiuscolo, nonostante il tutto maiuscolo dei cartelli di avviso e di divieto, è davvero troppo.

Ci siamo rimbecilliti a tal punto da discettare sull’utilizzo del c.d. “schwa” ( credo che si scriva così, ma confesso il mio totale disinteresse per le cretinate) per non utilizzare la desinenza finale maschile o femminile e non offendere certe sensibilità di genere. Ma chi ci sta imponendo certe regole assurte quasi al rango di norme costituzionali? La rete, il web, i social. Bei pecoroni.

I criteri di autorevolezza e credibilità

Vi è, poi, un altro aspetto, tutt’altro che insignificante, a proposito dei principi imposti dalla comunicazione sul web. In tale contesto, è davvero impossibile risalire con certezza alla persona fisica che abbia iniziato la saga, tanto per farsi un’idea.

Nella comunicazione cibernetica di oggi, una volta che chicchessia abbia detto qualcosa in rete, si rischia che, in pochi giorni, se non in poche ore, quella cosa qualunque venga ammantata da criteri di autorevolezza e credibilità senza precedenti.

Nel consesso scientifico, per fare un altro esempio pratico, si è sempre ritenuto che, prima di sostenere un nuovo principio, si sarebbe dovuti passare dalle preventive pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali di centenaria esistenza e/o tramite le pubblicazioni accademiche.

Accade invece quotidianamente, in questi strani tempi, che persino le più importanti materie scientifiche, quelle che riguardano il futuro di tutti noi, vengano trattate prima sui social e, soltanto n modo sussidiario ed eventuale, attraverso le pubblicazioni specializzate ufficiali (Covid-19 docet).

Il cyber-cordoglio

Ma, anche nelle questioni meno importanti, come le manifestazioni di cyber-cordoglio a famiglie mai minimamente conosciute o considerate, per la scomparsa di qualche personaggio in vista, sono dettate dal web, più che essere soltanto veicolate sul web.

Se le persone che contano fanno un post commemorativo di qualche illustre personaggio passato a miglior vita, entro un preciso lasso di tempo, che va dai pochi minuti seguenti la notizia della scomparsa ai due giorni dopo, tutti si affrettano a fare il loro bravo “coccodrillo” sui social e, persino, sul proprio “stato” di Whatsapp o su Instagram, anche e soprattutto quando dell’illustre scomparso non importava un fico secco quand’era tra noi.

Lo vuole il web: non scrivere niente “farebbe maleducato”, come scrivere in maiuscolo, mentre postando foto con frase celebre (non sempre) dello scomparso soltanto dopo 48 ore, si dimostrerebbe di non essere sempre sul pezzo.

Ritorno alla ragionevolezza

Cari amici, stiamo costruendo, proprio con le nostre velocissime mani da tastiera, la dittatura dei social, ce ne rendiamo conto? Perché, almeno, rendersene conto sarebbe importante.

Quale il dittatore da abbattere (come tutti quelli in carne ed ossa, prima o poi, finiscono)? Possiamo fare a meno dei social? Possiamo riportare queste assurde e perniciose regole social alla ragionevolezza? La risposta, ciascuno la trovi in sé stesso, possibilmente applicandola per sé prima di diffonderla e soltanto dopo averci ragionato su un momento. Forse siamo ancora in tempo.

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