Twitter Files: come fu censurata la storia esplosiva del laptop di Hunter Biden

Elon Musk pubblica i documenti interni di Twitter che confermano la censura politica. Contenuti da rimuovere segnalati dal Team Biden durante la campagna 2020

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La sera di venerdì 2 dicembre il nuovo ceo di Twitter, Elon Musk ha, come aveva promesso di fare, iniziato a rilasciare i documenti interni sulla censura online del gigante dei social media.

L’inaffidabilità dei media

La presentazione del primo lotto di documenti è stata affidata al reporter veterano Matt Taibbi, da sempre impegnato sul fronte della trasparenza nei media e appena reduce da un significativo successo nel dibattito organizzato a Toronto dalla non-profit canadese Munk Debates sul tema della fiducia del pubblico verso i media.

Il dibattito, che ha visto Taibbi insieme al collega britannico Douglas Murray difendere l’idea che i media occidentali sono inaffidabili in contrapposizione allo scrittore Malcom Gladwell e alla editorialista del New York Times Michelle Goldberg, ha registrato il più grosso spostamento di opinioni in un’audience nella storia dell’organizzazione. Con la percentuale di spettatori a favore della tesi di Taibbi e Murray passata dal 48 per cento pre-dibattito al 67 per cento post-dibattito.

Come cambia la policy di Twitter

Matt Taibbi ha aperto il racconto dei Twitter Files spiegando che inizialmente sulla piattaforma social media i contenuti erano completamente privi di moderazione, che venne in seguito introdotta allo scopo di combattere spam e frodi finanziarie.

A poco a poco agenti esterni iniziarono a pressare impiegati e dirigenti perché l’uso degli strumenti di censura venisse esteso alle notizie. Ancora nel 2015 la policy ufficiale di Twitter era rimuovere solo ciò che violasse la legge e raccomandare agli utenti di contattare le autorità nel caso in cui si sentissero in pericolo.

Entro il 2020 il venire contattati da agenti esterni con richieste di rimozione di contenuti era routine, e la risultante censura veniva eseguita come una routine.

Durante la campagna presidenziale, i contenuti da rimuovere venivano segnalati direttamente dal Team di Biden o dal DNC (Comitato Nazionale Democratico). Nell’ottobre 2020, a pochi giorni dal voto, un dirigente scriveva ad un altro: “Altro da esaminare dal Team di Biden”. La risposta: “Gestiti”.

Da come lo descrive Taibbi, questo sistema era qualcosa a mezza strada tra l’ufficiale e l’ufficioso, e ciò lo rendeva drammaticamente sbilanciato.

Tutte le parti politiche avevano la possibilità di segnalare contenuti non graditi, ma le segnalazioni dipendevano da contatti personali, e la maggioranza degli impiegati di Twitter (tra il 98 e il 99 per cento in base alla mappa delle donazioni politiche) era schierata a sinistra.

Viene per esempio confermato che, come già rivelato nel 2018 da The Daily Wire, l’attore James Woods, uno dei pochi conservatori di Hollywood e notoria spina nel fianco per la sinistra americana sui social media, venne sospeso da Twitter per “disinformazione elettorale” dopo aver condiviso un oscuro meme, e che la sospensione fu richiesta direttamente dal Partito Democratico. Woods ha già annunciato che adirà a vie legali.

La storia del laptop di Hunter Biden

Matt Taibbi passa poi al pezzo forte: la maniera in cui Twitter soppresse, durante la campagna presidenziale del 2020, la storia del laptop di Hunter Biden.

Gli “Hunter Files” cosiddetti, iniziano con un articolo del New York Post pubblicato il 14 ottobre 2020, che rivela l’esistenza di un laptop danneggiato dimenticato dal figlio di Joe Biden, Hunter, in un centro assistenza informatica.

Il laptop contiene informazioni scottanti sui rapporti d’affari tra la famiglia Biden, soprattutto il fratello di Joe, Jim, e Hunter, e diversi interessi stranieri tra i quali il Partito Comunista Cinese. Sembrano inoltre indicare che Joe ricevesse una parte dei profitti.

Il laptop era stato consegnato all’FBI dal proprietario del negozio di informatica, il quale temendo la natura delle informazioni contenutevi fece una copia dell’hard drive che in seguito finì nelle mani di Rudy Giuliani, che le fornì al New York Post.

Molte delle informazioni del laptop di Hunter erano inoltre confermate da altre due fonti. Un secondo laptop, appartenente all’ex socio in affari di Hunter Biden, Devon Archer, finito in prigione per truffa finanziaria e che stava collaborando con l’FBI, e Tony Bobulinski, un altro ex socio dei Biden che decise di parlare scandalizzato dalla condotta dei media nella vicenda.

La soppressione della notizia

Hunter Biden è sotto indagine dell’FBI sin dal 2018. Malgrado ciò, durante le elezioni del 2020 l’FBI stava già collaborando con i social media per sopprimere notizie che potessero influenzare il voto. Tra le quali a quanto pare c’era quella della propria stessa indagine.

Mark Zuckerberg ha infatti confermato che fu proprio l’FBI a chiedere a Facebook di sopprimere la storia degli Hunter Files, e altre conferme, compresa l’identità dell’agente dell’FBI preposto a tenere i contatti con i social media, Laura Dehmlow, sono arrivate da documenti ufficiali.

Adesso veniamo a sapere che qualcosa di simile avvenne anche a Twitter, e senza nemmeno coinvolgere l’FBI. Twitter non si limitò a impedire la diffusione dell’articolo, anche a mezzo chat DM, utilizzando strumenti di solito riservati a casi eccezionali come la pornografia minorile, ma sospese l’intero account del New York Post.

La decisione fu presa, a quanto pare senza nemmeno consultare il ceo di Twitter Jack Dorsey, nelle alte sfere della compagnia. In particolare emerge un nome familiare per chi ha seguito il dibattito sulla censura dei social media in Occidente: Vijaya Gadde.

Vijaya Gadde

Gadde si fece notare per la prima volta nel 2019 participando, al fianco di Jack Dorsey, al popolare podcast di Joe Rogan per parlare di censura sui social media.

In quell’occasione Gadde tentò di sostenere, in dibattito con il pioniere del giornalismo digitale Tim Pool, che la censura in Twitter non era politicizzata, ma esclusivamente nell’interesse della sicurezza degli utenti.

È stato in seguito rivelato che Vijaya Gadde non solo guidava la censura in Twitter, ma era di fatto una delle principali consulenti del governo americano sulla “anti-disinformazione”, e si incontrava regolarmente con funzionari del governo per discuterne. In seguito fu lei a prendere la decisione di mettere al bando da Twitter il presidente Donald Trump.

Il depistaggio dei media tradizionali

Da non dimenticare che per bilanciare la censura del New York Post da parte di Twitter e Facebook, partì nei media tradizionali una contro-campagna che suggeriva che la storia del laptop di Hunter Biden fosse un’operazione di disinformazione russa.

Iniziò con una lettera aperta di 51 ex dell’Intelligence americana, inclusi molti degli alfieri del Russiagate quali l’ex direttore della CIA John Brennan, e fu rafforzata da articoli di esperti quali Anne Applebaum su The Atlantic. Lo stesso Joe Biden nel corso della campagna elettorale liquidò la storia come disinformazione russa.

Lo scorso marzo, il New York Times ha ammesso in un pezzo sull’investigazione di Hunter che l’autenticità delle email contenute nel laptop non è mai stata davvero in discussione, nemmeno durante le elezioni. Oggi Twitter conferma che non c’è mai stato il benché minimo indizio di un’operazione di disinformazione russa.

La scusa dell’hackeraggio

La sospensione dell’account del New York Post creò tuttavia un po’ di onde in Twitter, ma ancora di più a Washington.

Prima che si iniziasse a parlare di disinformazione russa, la motivazione addotta da Twitter per la messa al bando del New York Post era l’idea, del tutto infondata, che gli Hunter Files fossero “materiale hackerato“. La politica di Twitter per il materiale hackerato era fino a quel momento stata che occorresse qualche forma di notifica ufficiale dalle autorità di pubblica sicurezza, che in questo caso mancava del tutto.

Taibbi cita un ex impiegato di Twitter: “L’hackeraggio era una scusa, ma entro poche ore, tutti avevano capito che non reggeva. Ma nessuno ebbe il coraggio di annullarla”. Questo portò a nervosi scambi di battute interni, in un’atmosfera molto “come posso essere sicuro che le mie spalle siano parate?”

A insistere perché si rimanesse in carreggiata con la soppressione della notizia emergono in particolare tre nomi: la già citata Vijaya Gadde, Yoel Roth, il capo della commissione Trust&Safety di Twitter recentemente dimessosi per differenze con Elon Musk, e James Baker, ex avvocato dell’FBI durante Russiagate (colui che accettò il falso dossier sull’Alfa Bank dall’avvocato della Campagna Clinton, Michael Sussman), unitosi al team legale di Twitter poco prima delle elezioni del 2020.

Le reazioni a Washington

Anche le reazioni dei politici non si fecero attendere, soprattutto dopo che Twitter sospese la portavoce stampa di Trump, Kaleigh McEnany, per aver ritwittato l’articolo del New York Post, provocando una furiosa reazione da parte di Mike Hahn, funzionario della campagna di Trump, che in un inquieto messaggio cercò di ricordare a Twitter che si era ancora in campagna elettorale.

Il rappresentante alla Camera Democratico Ro Khanna, della California, esibendo una certa familiarità, contattò personalmente Vijaya Gadde, chiedendole cosa fosse successo. Gadde gli rispose semplicemente che era tutto nelle regole di Twitter. Al che Khanna cercò di ricordarle che qui non si trattava solo di politiche aziendali, ma di libertà di espressione.

In realtà Khanna sembrava soprattutto preoccupato dalle reazioni del Congresso, specialmente in vista delle prossime udienze sulla riforma della Section 230 del Communication Act, la legge che regola l’immunità legale delle piattaforme social.

E non era il solo. Il giorno dopo Carl Szabo, presidente della società di lobbying NetChoice, che opera in Congresso a favore di Silicon Valley, faceva sapere a Twitter in una lettera che le cose non si stavano mettendo bene a Washington, soprattutto in sede di Commissione Antitrust.

Non tutti a Washington DC erano però arrabbiati con Twitter. Szabo riferiva anche che molti nel Partito Democratico non solo applaudivano la censura del New York Post, ma chiedevano ancora maggior impegno censorio da parte di Silicon Valley: “Il Primo Emendamento non è assoluto”.

Il ruolo di Jack Dorsey

Le udienze si tennero a fine ottobre e furono effettivamente tese. Memorabile lo scambio di battute tra in senatore del Texas Ted Cruz e Jack Dorsey. Cruz accusò Twitter di agire “come un super-PAC Democratico”, di rappresentare “la più grande minaccia alla libera espressione in America”, e gli chiese a muso duro: “Chi è che ti ha eletto?”

Matt Taibbi fa notare che Jack Dorsey è spesso intervenuto per risolvere una situazione spinosa riguardante la censura su Twitter, e sembra aver spesso avuto da obiettare sulle politiche di Twitter. Ma è abbastanza chiaro che Dorsey non fosse davvero in controllo della compagnia, dando credito alle voci che vogliono che fosse stato fatto tornare nel 2015, dopo le dimissioni di Dick Costolo, come una sorta di ceo di facciata.

Un “cartello” della censura

Questo è solo il primo lotto di Twitter Files, ma le conseguenze di quanto rivelato, o ufficialmente confermato, sono significative. Come ha osservato lo stesso Elon Musk, qui siamo di fronte ad una compagnia privata che ha accettato di operare come proxy del governo per violare diritti costituzionali.

E come è stato rivelato da altre fonti, non si tratta né dell’unico caso, né di un caso isolato. Si tratta ormai di una pratica consolidata in un vero e proprio cartello della censura.

Come se non bastasse, la soppressione degli Hunter Files è uno spudorato caso di interferenza in un’elezione presidenziale. Non ci resta che aspettare gli altri Twitter Files per sapere quanto più ancora la situazione è grave.

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