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Meglio arrendersi e vivere? Sotto le dittature la “pace” è più letale della guerra

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La storia ci insegna che gli eccidi peggiori sono avvenuti in tempo di pace, oppure in tempo di guerra lontano dal fronte. Chi rinuncia alla libertà per la vita, spesso perde sia l’una che l’altra…

Preferisci vivere sotto una dittatura, o morire sotto le bombe? Questa è la domanda che si pongono tutti coloro che stanno intimando la resa agli ucraini, dal salotto televisivo italiano. L’ultimo in ordine di tempo ad argomentare in tal senso è Piero Sansonetti, direttore del Riformista, con un lungo e meditato articolo in cui spiega che la vita è più importante della libertà e dell’indipendenza. Ma lo stesso tema viene ribadito, sin dal primo colpo sparato dai russi sugli ucraini, anche da Vittorio Feltri, da Alessandro Orsini (“preferisco che i bambini vivano in una dittatura e non muoiano sotto le bombe in nome della democrazia”) e da tantissimi altri commentatori.

D’accordo, questa è l’indole italiana. Quando l’Italia venne invasa dagli Alleati, impiegò appena due mesi, dopo la perdita della Sicilia, ad arrendersi. E quando i tedeschi ci invasero per rappresaglia, solo pochi eroi senza ordini opposero resistenza, mentre il re era già fuggito. Ma che fine fecero coloro che non scapparono? Compresa Mafalda di Savoia, deportata a Buchenwald e morta meno di un anno dopo? Se noi ricordiamo tutti i 25 aprile le grandi stragi dei nazisti, da Marzabotto alle Fosse Ardeatine, da Civitella a Sant’Anna di Stazzema, per non parlare dell’eliminazione fisica quasi completa della comunità ebraica italiana, è perché la resa non ha affatto garantito la vita. Se ti arrendi e ti fai occupare, può darsi che il nemico ti voglia uccidere. Nessuno sa se il suo nome è inserito in una lista nera stilata dall’occupante.

In Ucraina, le fosse comuni a Bucha, Irpin, Hostomel e Borodyanka sono lì a dimostrarlo. Non vi sono sepolti solo civili morti in battaglia, presi dal fuoco incrociato. Ci sono anche segni di torture e di esecuzioni sommarie in centinaia di cadaveri riesumati. Nonostante lo sforzo dei negazionisti (anche italiani) e i dubbi di ex corrispondenti di guerra in pensione, sta emergendo sempre più chiaramente la prova di un crimine di massa compiuto dai russi nei territori che hanno occupato in appena un mese. Se ne scopriranno sempre di nuove e più gravi: secondo l’amministrazione di Mariupol, quasi interamente occupata dai russi, vi sarebbero fosse comuni con centinaia (o migliaia) di civili uccisi. E non tutti, appunto, sono morti in battaglia: ceceni e altre truppe al seguito dei russi avrebbero già compiuto le loro stragi, a freddo, a battaglia ferma.

Le stragi russe potrebbero essere sistematiche e non solo sporadiche. Non è un mistero che la causa dichiarata dell’invasione dell’Ucraina sia la sua “denazificazione”. Ma nel nuovo dizionario russo, “nazista” è l’ucraino che non accetta di essere russo, perché secondo gli ideologi del Cremlino l’identità nazionale ucraina è artificiale e motivata dall’ostilità (“nazista”) alla “vera patria” russa. Lo scopo dei russi potrebbe essere, dunque, quello della de-ucrainizzazione. Secondo uno storico esperto di Europa orientale quale è Timothy Snyder, il programma per l’Ucraina pubblicato all’inizio del mese dall’agenzia statale russa Ria Novosti, contiene tutti gli elementi di un progetto genocida, sia negli scopi che nei termini in cui viene espresso. La fine delle ostilità, per un cittadino ucraino, potrebbe essere peggio della guerra.

Non è una novità per tutte le popolazioni che vivono in quella parte di Europa che Snyder, nel suo lavoro più celebre ha ribattezzato “Terre di sangue”. Gli eccidi peggiori sono avvenuti in tempo di pace, oppure in tempo di guerra lontano dal fronte. Il regime di Stalin è ritenuto responsabile per l’uccisione di 20 milioni di suoi cittadini, secondo le stime del “Libro Nero del Comunismo”. Di questi 20 milioni, 4,5 sono gli ucraini morti nella grande carestia artificiale del 1932-33, scientemente provocata da Stalin proprio per ottenere la de-ucrainizzazione di una terra occupata dall’Armata Rossa dieci anni prima. Non c’era alcuna guerra in corso, ma per un cittadino ucraino, vivere sotto la dittatura staliniana non era affatto sinonimo di “felicità”, neanche di “vita”, ma morte certa, per fame o per i plotoni d’esecuzione della polizia politica.

I sovietici “vantano” il più grande tributo di sangue nella Seconda Guerra Mondiale, nella lotta che portò alla sconfitta dei nazisti. Ma non dicono che, fra quei morti, ci sono almeno 5 milioni di cittadini sovietici uccisi per ordine di Stalin o come conseguenza della loro deportazione, secondo le stime più basse del politologo Rudolph Rummel. Nei territori occupati nel 1939-41, a seguito del Patto Ribbentrop-Molotov, vennero deportati mezzo milione di polacchi, giusto per iniziare. I 22 mila morti delle fosse comuni di Katyn, tutti ufficiali polacchi prigionieri, risalgono a quel primissimo periodo di guerra. Nei territori successivamente “liberati” dall’Armata Rossa, interi popoli, come ceceni e tatari, vennero considerati collettivamente collaborazionisti dei nazisti e deportati in massa. E nei territori che non vennero mai occupati dai tedeschi, le epurazioni continuarono senza sosta.

A causa dello strabismo ideologico dei nostri storici, si contano quasi solo i morti in guerra. A parte qualche eccezione eclatante, come i grandi genocidi impossibili da nascondere, è raro che si ricordino i prigionieri uccisi dentro i confini dei regimi totalitari, o nei territori da loro occupati. I civili assassinati a freddo, per motivi etnici, religiosi, politici, di classe, sono molti di più di tutti i soldati uccisi in battaglia. Secondo le stime di Rummel nel suo classico della scienza politica “Stati Assassini”, i regimi hanno ucciso 169 milioni di persone nel Novecento. Tutte le guerre del “secolo breve”, incluse le due guerre mondiali, hanno provocato, in confronto, meno di un terzo di quelle vittime. La pace, sotto i regimi dittatoriali, è dunque tre volte più letale della guerra. La domanda legittima, dunque, non è “meglio vivi o liberi”, perché se perdi la libertà è anche molto facile che tu, i tuoi cari, o i tuoi vicini, perdano anche la vita.