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Mentre Charlie Hebdo continua a non inchinarsi ai terroristi veri, l’Occidente si è prostrato ai terroristi da tastiera

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Più o meno cinque anni e mezzo fa, tutti erano Charlie. Più o meno per cinque minuti e mezzo. In questi giorni in Francia comincia il processo ai quattordici presunti fiancheggiatori dei terroristi che il 7 gennaio 2015 a Parigi assaltarono la redazione della rivista satirica Charlie Hebdo (uccidendo dodici persone tra cui il direttore e quattro vignettisti), ma in un quinquennio i fiancheggiatori dei fanatici della repressione violenta della libertà di espressione si sono moltiplicati, fino a diventare la maggioranza, se non la totalità, dei “benpensanti”. “Je suis Charlie”, proclamavano, a milioni, in quelle ore insanguinate, compiendo l’eroico gesto di modificare a tema l’immagine del proprio profilo sui social. Non erano Charlie, ovviamente, perché il politicamente corretto già allora si stava insediando nelle postazioni di controllo delle menti e perché, al di là della reazione omologata e modaiola del momento, la risposta (come sempre) non fu quella di prendersela con gli stragisti operativi e potenziali, ma di accusare di islamofobia chiunque non fosse allineato con l’ideologia dei sodali dei manovratori.

Fa comunque specie che in un lasso di tempo così breve si sia passati dall’avere una fetta preponderante di occidentali favorevoli (seppur fittiziamente) alla blasfemia nei confronti dell’Islam (questa l’accusa a Charlie Hebdo in seguito alla pubblicazione di alcune vignette su Maometto) all’avere una fetta preponderante di occidentali favorevoli alla cancellazione di chi per esempio osi ricordare un semplice fatto biologico, ossia che in natura esistono maschi e femmine. Nonostante l’urgenza data dagli attentati islamisti in serie che spappolavano esseri umani (con i cadaveri dei quali si seppelliva anche ogni residuo di pensiero illuminista), grazie al regressismo “progressista”, progressivamente l’attenzione si è spostata su questioni identitarie del tutto avulse dal reale ma portatrici di stigmi concretissimi come le accuse di transfobia nei confronti di chiunque non osi abbracciare l’ultimissima versione dell’ideologia gender (per chi non lo sapesse, guai a lui/lei/x, i generi oltre a “maschio” e “femmina” – “maschio” e “femmina” che non sono altro che etichette affibbiate arbitrariamente alla nascita – sono già decine, in costante espansione), le accuse di mansplaining, misoginia e sessismo (quando non di molestie e di stupro) nei confronti di chiunque osi essere nato maschio e le accuse di razzismo nei confronti di chiunque osi essere nato bianco. 

Le mattanze jihadiste sono state rimpiazzate o comunque affiancate dalla distruzione della persona derivante dalla cancel culture, nell’ambito della quale terroristi del politicamente corretto e della dottrina woke fanno perdere il lavoro, la reputazione e il diritto ad avere relazioni interpersonali a chiunque osi esprimere un’idea non conforme all’idea-che-bisogna-avere. Il risultato è che l’autocensura è la nuova normalità, non solo quando si tratta di islamismo, ma quando si tratta di qualunque cosa. Perciò spiazza la decisione da parte dei nuovi responsabili di Charlie Hebdo di ripubblicare (in occasione dell’avvio del processo) le vignette su Maometto che avevano fornito il pretesto agli stragisti islamisti. Spiazza e arriva come un impolverato e quasi folcloristico reperto di un’altra epoca, quando la libertà di espressione era fortemente minacciata ma c’era ancora, e c’era ancora qualcuno disposto a esercitarla e a difenderla, anche a costo della vita. Quando non vigeva ancora la dittatura del vittimismo degli ingiustificatamente suscettibili e quando non si era ancora terrorizzati dal fatto che la propria stessa esistenza potesse offendere qualcuno che poi ce l’avrebbe fatta pagare, sostenuto da altri squadristi a loro volta intrappolati nelle turbe di un’eterna e problematica infanzia psicologica. 

Mentre Charlie Hebdo continua a non inchinarsi ai terroristi veri, l’Occidente si è da tempo prostrato ai terroristi da tastiera. Oggi non solo sarebbe velleitario proclamare “Je suis Charlie”. Oggi in pochissimi hanno il coraggio di sussurrare anche solo “Je suis”. “Non ci arrenderemo mai”, ha scritto nel suo più recente editoriale Laurent “Riss” Sourisseau, sopravvissuto alla carneficina e attuale direttore della rivista. Quanto devono sentirsi soli al mondo, i superstiti di quella redazione, traditi, come peraltro tutti noi, da quelle élite che per vezzo avevano giurato di difendere la libertà e di combattere gli estremisti, prima di sprofondare incorreggibilmente nella codardia e nel bieco opportunismo.

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