Le ferie sono ormai concluse, i negozi tornano a rialzare le serrande, le attività commerciali riprendono il solito ritmo e di loro proprio si discute animatamente nel dibattito politico italiano alla vigilia del grande nodo da scioglere, ovvero la legge di bilancio. Un argomento già annunciato quando la nuova maggioranza aveva trovato la quadra per il governo e giungevano i primi annunci sul programma stilato: rivedere la norma sull’apertura domenicale degli esercizi commerciali che porta la firma del governo Monti. Il dibattito si è subito animato e trova nel ministro dello sviluppo economico e del lavoro, Luigi Di Maio, un megafono che occupa facilmente il campo, dettando tempi e modi dello scontro verbale rubando di fatto la scena agli alleati di governo, dal momento che la proposta di legge è stata presentata dalla deputata leghista Barbara Saltamartini, e seguendo un canovaccio consolidato: un avversario da incolpare e un male da curare con un’iniezione di statalismo.
“Sicuramente entro l’anno approveremo la legge che impone uno stop nei week end e nei festivi a centri commerciali ed esercizi commerciali”, ha dichiarato Di Maio ospite alla Fiera del Levante di Bari, tradendo con la scelta lessicale un atteggiamento quantomeno preoccupante se attribuibito ad un ministro che si occupa di lavoro e sviluppo. Sull’opportunità o meno di consentire l’apertura dei negozi di domenica e nei giorni festivi il confronto è più che mai legittimo e di certo non riguarda solo l’Italia, ma le parole hanno un peso ed è la volontà di imporre una legge che desta perplessità: senza voler sponsorizzare le ormai tanto vituperate idee neoliberiste – ritenute artefici di ogni male anche laddove non sono state applicate – sarebbe decisamente più rassicurante un ministro dello sviluppo economico che studiasse un piano per rilanciare i consumi e favorire gli scambi, piuttoso che essere orientato a promuovere divieti attraveso leggi dello stato.
Secondo Di Maio, la liberalizzazione degli orari commerciali “sta distruggendo la vita delle famiglie”: una presa di posizione in linea con il programma politico del leader dei Cinquestelle, una strategia sicura e testata (il governo dei tecnici come avversario da criticare per un malessere sociale), utile tanto in campagna elettorale prima quanto al governo poi. La soluzione è presto detta: l’intervento statale. Un’ulteriore dimostrazione è giunta a stretto giro di posta, sempre da Bari, sui piani di intervento a Genova. Di Maio ha inizialmente indicato – o meglio ricordato – i colpevoli, cause del male “senza attendere i tempi della giustizia”: “Il crollo di Ponte Morandi ha dei responsabili che si chiamano Autostrade per l’Italia, Atlantia e Benetton perché non hanno fatto la manutenzione che avrebbero dovuto fare e non possono pensare di farla franca maneggiando un plastico o facendosi belli durante una conferenza stampa di presentazione della ricostruzione”. Quindi ha presentato la cura, che inevitabilmente passa per un intervento normativo e sgombera il campo per l’intervento dello stato: “Noi non solo gli toglieremo le concessioni, come abbiamo promesso agli italiani, ma avranno un’altra brutta sorpresa nei prossimi giorni. Per quello che mi riguarda il nuovo ponte deve essere costruito da un’azienda di stato come Fincantieri, perché lo stato deve monitorare le modalità di ricostruzione del ponte”.
Nelle esternazioni del leader grillino, lo stato non è solo la risposta, ma anche colui che propone e dispone come si intuisce dalle ultime parole sul reddito di cittadinanza: “Non voglio dare soldi alle persone per starsene sul divano a fare niente. Se io ti do un reddito tu ti prendi i tuoi impegni, lavori otto ore per il tuo comune, ti devi formare”, dove “io” sta ovviamente per lo stato (L’état, c’est moi…). Ragionamento in apparenza sacrosanto: se ti pago, in cambio devi fornire un servizio. Ma in profondità quello di Di Maio è un gioco piuttosto perverso: non sarebbe più logico attendersi, da chi ricopre il suo ruolo, una visione in cui sia l’economia, intesa come scambio e produzione da parte delle aziende e delle attività commerciali, a dover generare offerta di lavoro e un miglioramento delle condizioni sociali, considerati soprattutto i precedenti poco edificanti di piani statali per stimolare l’occupazione? Altrimenti per coerenza sarebbe decisamente più sensato introdurre un ministero in stile sovietico per la Pianificazione economica. Il candidato perfetto per lo scranno c’è già: si chiama Luigi Di Maio.