Naufrago non si può diventarlo con la preordinazione di esserlo e non può esistere immigrazione senza regole: nessuno stato di diritto può ammettere sul proprio territorio chi vi s’introduca con l’inganno o di nascosto
Facciamo un pò di chiarezza sulla questione del “salvataggio” in mare dei c.d. “migranti”, come sembrerebbe obbligatorio definirli tutti. Occorre operare una distinzione tra le varie fattispecie di persone che si trovino in mare e richiedenti di essere trasportate “in salvo”, per quanto ampiamente normate dalle convenzioni e dai trattati internazionali. La questione attiene, oltre che a motivazioni d’ordine morale ed etico, a precise casistiche, ben diverse e non sovrapponibili tra loro. Partiamo dalla varia nomenclatura con la quale, spesso a fini suggestivi, vengono denominate le persone che le nostre navi militari e quelle delle ong “soccorrono” nel tratto di mare tra le coste africane ed il nostro meridione.
Si parla spesso di naufraghi. Quasi sempre il termine è inappropriato, perché “naufrago” è soltanto chi sia stato espulso da un mezzo di navigazione marittimo o aereo per causa di un incidente di qualsivoglia natura. Con un pò di interpretazione estensiva del termine, naufrago potrebbe forse essere anche chi si trovi ancora a bordo del mezzo di trasporto ormai divenuto ingovernabile. Ma non sarà mai tale chi si trovi a bordo di una nave o aeromobile ancora in grado di governare autonomamente. Togliamo, di conseguenza, una bella fetta di persone dalla categoria protetta dei naufraghi tra le migliaia che si avvicinano alle nostre coste. Non parliamo nemmeno di quelli che hanno pagato (cifre enormi) a dei criminali per avere un passaggio verso l’Italia, concordando con precisione satellitare luogo ed ora del trasbordo su altre navi che li attendevano.
Non guasta ricordare che, dalle Convenzioni di Ginevra ed ai loro Protocolli aggiuntivi (in questo caso il terzo) in avanti, la tutela, persino in tempo di guerra, distingue tra quelli che sono da considerarsi intoccabili, come nel caso di un pilota che si cali col paracadute in suolo nemico dopo l’abbattimento del suo aereo, sul quale non si può sparare, e quelli che, pure col paracadute, si calino al suolo per compiere azioni di guerra, ed in quel caso è più che lecito mirare a loro anche fintanto si trovino, pressoché indifesi, ancora in cielo. È il principio delle finalità con le quali un soggetto si introduca, sia pure con mezzi di fortuna, al suolo estero, quello che, giustamente, rileva, più che il mezzo tecnico con il quale egli lo fa. Naufrago non si può diventarlo con la preordinazione di esserlo. Non basta essere a bordo di un barcone più o meno fatiscente per godere di tutela internazionalmente garantita, tranne nel caso in cui i trasportati non versino in stato di pericolo di vita. In tal senso s’esprime il nostro Codice della Navigazione, ove prevede (art. 1158) l’autonomo reato di omissione di assistenza a navi o persone in pericolo e le convenzioni SOLAS e SAR, che obbligano, nelle medesime circostanze e solo in quelle, di prestare soccorso ed assistenza per accompagnare in un luogo sicuro o, almeno, assicurarsi che alle persone in pericolo venga loro garantito tale soccorso.
La questione è spinosa e di non semplice attuazione pratica, soprattutto ove sia necessario identificare quale possa essere considerato “luogo sicuro”, più che “porto sicuro”, tenendo conto di circostanze inerenti le convenzioni specifiche interstatuali e le condizioni tecnicamente rilevanti, come quelle meteorologiche o derivanti dalla presenza di minori o ammalati a bordo del natante che s’intenda soccorrere. Il cosiddetto “porto sicuro”, evoluzione tecnica del “luogo sicuro” potrebbe essere tale dal punto di vista della sua idoneità a prestare efficace soccorso ed offrire rifugio a chi ne abbisogni, ma non essere idoneo perché non disponibile per scelte politiche di questo o di quello Stato (sovrano, non dimentichiamolo) che non volesse accogliere i soccorsi. Interi tomi di diritto internazionale e diritto marittimo si occupano della questione del salvataggio in mare, ed ovviamente ne abbiamo, qui, soltanto fatto un conciso accenno, ma rimane il fatto che se non esiste un pericolo attuale e reale per la vita dei naviganti, non esista obbligo alcuno di recare loro salvataggio.
Ma quando non si possa parlare di naufraghi, bensì si tratti di migranti, ossia persone che ritengano opportuno, di loro volontà, trasferirsi in altri Paesi per motivi economici, la questione cambia radicalmente. In questo caso, la legge del mare e le convenzioni internazionali non possono trovare applicazione, se non limitatamente alle garanzie che chiunque ha a proposito di trattamento conforme alla dignità umana ed alla sua inviolabilità personale. Le norme sulla migrazione, trattate peraltro non uniformemente da ogni nazione, sono le uniche alle quali sarà possibile fare riferimento e le uniche da rispettare e delle quali pretendere il rispetto, come per ogni norma. Un atteggiamento, potremmo dire “buonistico”, molto diffuso nella cultura politically correct della nostra sinistra, che pervade larga parte del mainstream italico, porterebbe a non porre alcun limite, nemmeno puramente numerico, alle istanze di coloro che ritengano l’Italia (e forse anche l’Europa, ma intanto sbarcano da noi) un luogo dove si viva meglio e ciò è un gravissimo errore. Non abbiamo certo scoperto adesso che l’Africa, o perlomeno la sua parte centrale, non offra grandi prospettive ai suoi abitanti, ma non per questo possiamo accoglierli tutti, anche perché non siamo minimamente in grado di offrire loro qualcosa di realmente migliore. Non coglie affatto nel segno ricordare le nostre migrazioni verso le Americhe, o verso il Canada e l’Australia degli anni 50-60 del secolo scorso, anzi, riafferma il principio secondo il quale se si emigra in altra parte del mondo bisogna prima sapere cosa si va a fare, avere i documenti in regola, rispettare le leggi dei Paesi che ci accoglieranno e potranno darci lavoro, con le loro modalità che non potremo certo modificare noi. Si pensi soltanto, per parlare di oggi, di quali limiti la civilissima e mai stigmatizzata Australia ponga all’emigrazione per scopi di lavoro o di semplice turismo. Sono severissimi, non concedono sconti né deroghe e va bene a tutto il mondo, e tutti li lasciano (giustamente) fare, mentre a noi tutti fanno la morale. Non esiste né potrà mai esistere emigrazione senza regole, senza documenti, senza rispetto di norme anche sanitarie (ora più che mai cogenti e necessarie) e certamente mai potrà essere definita emigrazione quella di chi s’introduce sul suolo altrui contro la volontà e le norme degli abitanti di quel Paese. Qualcuno parla, invece, d’invasione. Difficile dare loro torto del tutto, se non per questione di numeri, anche se, su quelli, basterà aspettare qualche anno ancora e poi, semmai, riparlarne.
Profughi, esiliati o rifugiati allora? in questo caso, la definizione è applicabile unicamente alle persone che hanno dovuto lasciare il loro Paese perché perseguitati (in modo grave e dimostrabile, e non per semplice dissenso con l’autorità statale) o perché colpiti da guerre e calamità che ne avrebbero compromesso l’incolumità e l’esercizio dei loro diritti insopprimibili. Tale condizione deve essere valutata caso per caso e non certo concedibile d’ufficio a chiunque provenga da una data nazione. Il c.d. diritto umanitario è in costante sviluppo, benché molte siano le critiche ad alcune sue emanazioni di parte o dettate da interessi economici. È materia davvero ostica e non facilmente applicabile senza conoscere le reali condizioni dei singoli, soprattutto nel caso in cui gli stessi si professino, per fare un esempio largamente attuale, appartenti ad una nazionalità diversa da quella reale, approfittando, magari, della circostanza che in una nazione vi sia effettivamente o meno la guerra. È forse il caso più spinoso da affrontare e, comunque, la soluzione non è mai tabellare. Si pensi al caso di Paesi in cui la costante violazione dei diritti fondamentali dei singoli sia la norma quotidiana (e ne conosciamo a decine se non centinaia, e quasi tutti popolosissimi); che fare in quei casi? Li dichiariamo tutti rifugiati e li accogliamo tutti? Attenti con le definizioni e con l’ecumenismo.
E che dire dei clandestini, infine? Unico caso, almeno in linea teorica, di soluzione più semplificata. Nessuno stato di diritto può ammettere sul proprio territorio chi vi s’introduca con l’inganno o nascostamente. Se mettessimo in dubbio questo elementare principio di civiltà sarebbe la fine della legalità. Eppure qualcuno vorrebbe equipararli ai migranti, ai naufraghi, agli esiliati. A quel punto, per coerenza e dirittura morale, bisognerà non perseguire nemmeno chi ruba per fame, chi si sottrae al fisco per bisogno economico, chi persino uccida per provata esasperazione. Ma la legge va rispettata, pur con il contemperamento delle attenuanti di pena da essa previste, come quelle dell’art. 62 del Codice Penale vigente. Ma la clandestinità, in Italia come in ogni altro Paese civile, è ancora un reato. Lo si tolga, magari (con le conseguenze del caso) e poi non faremo più nulla nei confronti di chi si è introdotto clandestinamente da noi.