Nel Green Pass la concezione controriformistica del potere pubblico: scissione tra libertà e responsabilità

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Persiste in Italia, nell’approccio alla pandemia, una mentalità da Controriforma: al governo, libertà senza responsabilità; ai cittadini, responsabilità senza libertà. Ipocrisia nell’applicazione delle misure e “doppia verità”, una per il “popolino” e l’altra per i “chierici”…

La conferenza stampa di giovedì scorso in cui il presidente del Consiglio Mario Draghi ha annunciato le misure dirette a combattere la perdurante epidemia di Covid, in particolare quella di impedire “a tappeto” l’accesso ai principali luoghi dove si svolgono le attività sociali (culturali, sportive, educative ecc.) alle persone non vaccinate (e che non dispongono del relativo certificato, il cosiddetto Green Pass) ha suscitato in molti una reazione decisamente negativa, che è stata espressa sia da numerosi commentatori (anche su Atlantico Quotidiano) non legati ai media mainstream, che da alcune proteste di piazza, in genere fortemente criticate (quando riportate) dai citati media. Oltre al contenuto in sé delle misure a molti è apparsa particolarmente grave la fatwa lanciata dal capo del governo, con uno stile a dire il vero più simile a quello dei profeti di sventura che a quello dei tecnici esperti nelle cose politiche, verso i renitenti al vaccino, caricati di responsabilità decisamente esagerate e quindi bollati con espressioni altrettanto ingiustificate.

Personalmente – dal punto di vista dello studioso di storia delle istituzioni – ho trovato la conferenza stampa del presidente Draghi per molti versi interessante ed estremamente significativa: in essa infatti è apparsa in piena luce, in maniera pura e “cristallina”, quella che è da secoli una delle ossature portanti, spesso nascoste ma proprio per questo fondamentali, della cultura civica italiana, in particolare per quanto riguarda il rapporto tra governanti e cittadini: la concezione controriformistica del potere pubblico, una concezione che è passata indenne attraverso l’illuminismo, il risorgimento, lo stato liberale, il regime fascista, la prima e la seconda repubblica per giungere sino ai giorni nostri.

Le parole pronunciate dal capo del governo e soprattutto i toni usati, sono stati infatti gli stessi che avrebbe utilizzato un principe o un alto prelato (arcivescovo – primate o cardinale romano) tra fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, così come le invettive di alcuni virologi, dimentichi che la scienza per essere tale è prima di tutto umiltà di pensiero, assomigliano a quelle che alla suddetta epoca pronunciavano i predicatori ecclesiastici itineranti che minacciavano (“guai a voi anime prave!”) castighi spirituali e pene corporali a chi non si conformava alle prescrizioni date dall’alto. Allora come oggi, di fronte ad una situazione di grave difficoltà (e questa è indubbiamente la più grave epidemia che colpisce il mondo occidentale dall’epoca della Spagnola), e soprattutto di fronte alla possibilità di commettere errori anche pesanti, il potere pubblico non si prende la responsabilità di decidere, ma induce i cittadini a farlo in sua vece, con tutti i mezzi di cui dispone.

Il governo infatti non ha deciso di rendere obbligatori per tutti i vaccini, come avrebbe coerentemente dovuto fare se ritiene che il non vaccinato “semini la morte”, ma obbliga in sostanza gli interessati ad adeguarsi sotto la loro responsabilità, con un misto di autoritarismo e di ricerca del consenso che è lo stesso che caratterizzava l’agire dei governanti laici e dei dignitari ecclesiastici dell’epoca della Controriforma, frutto in gran parte della morale gesuitica allora dominante. La stessa Inquisizione romana condannò poche persone che “ostinatamente” contestavano le ragioni dell’accusa (il caso più celebre fu quello di Giordano Bruno): nella quasi totalità dei casi i processi si concludevano con la confessione del reo e la sua ritrattazione, cioè con la sua adesione alle tesi del potere (il caso più celebre fu quello di Galileo Galilei). Come questa adesione avvenisse tutto sommato poco importava, dato che decisivo era il risultato finale: il potere pubblico aveva lasciato al singolo la possibilità di aderire o meno alla prescrizioni stabilite dall’alto e quest’ultimo le aveva accettate “spontaneamente”. In caso contrario il funzionario di turno “suo malgrado” si vedeva costretto (nella tradizione controriformistica gli atti dell’autorità pubblica sono sempre “atti dovuti” e mai il frutto di decisioni responsabili) ad adottare “i provvedimenti di propria competenza”, cioè a punire il dissidente. In base a questa impostazione, libertà e responsabilità venivano separati: la prima era attribuita ai funzionari pubblici, la seconda ai soggetti privati: nelle disposizioni predisposte dal governo questa separazione riemerge in maniera netta.

Peraltro è giusto dire (e questa è un’altra delle costanti della cultura civica italiana) che allora come oggi le regole e i principi validi in astratto, “sulla carta”, erano e spesso sono tuttora molto diversi da quelli applicati di fatto nella realtà concreta. Così come l’Inquisizione nella maggior parte dei casi “chiudeva un occhio” e/o giungeva ad accordi con i presunti “eretici” (peraltro molte denunce erano spesso il frutto di inimicizie e liti personali) al fine di trovare soluzioni condivise anche se non certo “paritarie” tra funzionari ecclesiastici e “peccatori”, allo stesso modo c’è da supporre che le regole sul Green Pass, anche se non modificate, nei fatti avranno una applicazione molto meno “draconiana” (siamo pur sempre il Paese del lavoro sommerso e quello nel quale le attività “informali” sono di fatto una colonna portante del vivere sociale) di quanto potrebbe apparire sia dalle reprimende dei favorevoli che dai timori dei contrari.

Non sembra troppo azzardato prevedere che, accanto ad alcune persone sanzionate senza se e senza ma (e spesso anche senza alcuna ragione, ma solo per motivi formali) molti troveranno un modus vivendi e nei fatti è molto probabile che si affermi un’applicazione del Green Pass “a geometria variabile”, che tenga conto della necessità di tutelare i soggetti deboli (anziani e persone affette da patologie) senza vessare eccessivamente i cittadini a basso rischio (soprattutto i giovani). Del resto nella direzione di un’applicazione “ragionevole” delle misure dirette a combattere il virus vanno altre decisioni adottate dal governo, come l’avere previsto e seguito da mesi un ordine di priorità (basato sull’età anagrafica e sulle patologie) in base a cui effettuare le vaccinazioni (che non avrebbe senso se tutti avessero lo stesso grado di rischio e “seminassero morte”), o la elaborazione (annunciata contestualmente alle decisioni sul Green Pass) di nuovi criteri diretti a tenere conto nel decidere le eventuali future chiusure non dei contagiati sani, ma dei malati effettivi.

A ben guardare, sembra che di fatto si stia diffondendo anche nel governo italiano un approccio più moderato e più mirato nell’affrontare l’epidemia, un approccio che oltre ai vaccini valorizza le cure tempestive a scapito delle chiusure “a tappeto”, che hanno provocato tanti “effetti collaterali” negativi (dal punto di vista sanitario e non solo). A questo corrisponde però, sul piano delle affermazioni ufficiali e delle prescrizioni formali un inasprimento dei toni “apocalittici” della battaglia contro l’epidemia, di cui le affermazioni del presidente Draghi sono un esempio tipico, toni diretti allo scopo certamente in sé del tutto condivisibile di “tenere all’erta” la popolazione nell’affrontare l’epidemia e di indurla a vaccinarsi, ma che hanno l’effetto anch’esso “collaterale” di fomentare in molti una paura eccessiva (già indotta dei meccanismi comunicativi dei mass e social media) che fa talora dimenticare di adottare le elementari misure di contenimento personale della malattia, come ad esempio le diagnosi precoci dei sintomi.

Anche in questo si può ritrovare un’altra analogia storica con la mentalità della controriforma, la quale era basata sulla teoria della cosiddetta “doppia verità”, secondo la quale accanto ad una verità “pubblica” generalista, diretta a formare e guidare le coscienze dei fedeli coesisteva una verità specialistica rivolta a guidare l’azione pratica degli esperti, dei “chierici” e degli altri addetti ai lavori. Com’è noto, proprio nella stessa epoca in cui la Chiesa condannava duramente le teorie astronomiche copernicane e chi le sosteneva, veniva elaborato l’attuale calendario, detto “gregoriano” dal nome del papa Gregorio XIII, i cui calcoli si basano di fatto su tali teorie, e che proprio ad esse deve la sua esattezza.

Oggi un qualcosa di simile alla doppia verità si ha nel fatto che, mentre sul piano pratico gli addetti ai lavori operano sempre più in base a giudizi realistici sulla diffusione e sulla cura della malattia (e molti lo hanno fatto lodevolmente sin dall’inizio della diffusione della stessa), sul piano della comunicazione mediatica nonché, come dimostrano i provvedimenti annunciati dal governo, su quello delle prescrizioni formali il rischio astratto di ammalarsi, anche quando molto improbabile (come accade per i giovani e giovanissimi senza patologie) tende a trasformarsi in un pericolo certo se non addirittura in un fatto inevitabile. Che un approccio “prudenziale” alla grave epidemia tuttora in corso, anche un approccio che ne esageri le potenzialità negative, diverso da quello degli addetti ai lavori, debba essere adottato dalla generalità dei cittadini è indubbiamente giusto, ma il problema è come sempre quello di individuarne i limiti, passati i quali le precauzioni e i divieti creano più danni che vantaggi, dal punto di vista sanitario e non solo, e in questo diventa decisiva l’unione di libertà e responsabilità nelle scelte, degli organi pubblici per quanto riguarda le regole generali, dei soggetti privati per ciò che concerne la vita individuale e associata.

Dal punto di vista storico la cultura civica della Controriforma ancora più che per le repressioni che ha provocato (ovviamente deprecabili e senza giustificazioni) è criticabile ad avviso di chi scrive per avere soffocato nel lungo periodo questo legame tra libertà e responsabilità e con esso la possibilità di una relazione tra governanti e governati basata su diritti e doveri chiari e reciproci, e ciò in nome di un sistema formalmente perfetto (le leggi italiane sono le “più belle del mondo”, la gestione dell’epidemia è stata la “migliore di tutte”), ma che in sostanza da sempre si basa in larga misura su una serie di compromessi gestiti dall’alto in maniera autoritaria.

Una mentalità che, così come in passato portò ad “annacquare” molti dei principi fondamentali elaborati dalla stessa morale cattolica in tema di libertà individuale nonché ad impedire a molti scienziati e pensatori italiani di portare avanti le loro idee, ancora oggi nella gestione della grave situazione che stiamo vivendo rende difficile lo sviluppo di un atteggiamento empirico e responsabile dei cittadini nei confronti dell’epidemia.

Un atteggiamento quest’ultimo che invece, come dimostra ad esempio l’esperienza della Gran Bretagna (erede della tradizione liberale del pluralismo religioso “dal basso” delle chiese riformate), che ha festeggiato la fine delle restrizioni legate al Covid, il “Freedom day” (e quelle che rimangono sono principalmente affidate alle scelte dei soggetti privati, come ad esempio i gestori delle strutture aperte al pubblico), si è dimostrato nonostante gli inevitabili errori, per tanti aspetti più adeguato non solo a tutelare le libertà individuali ma anche ad affrontare la malattia da coronavirus, rispetto a quello condizionato dalla paura e basato sulla gestione “dall’alto” (anche se in concreto mirata ad essere la più ragionevole possibile) della vita altrui da parte del potere pubblico che perdura nel nostro Paese.

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