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Nel voto in Emilia Romagna la reazione del sistema a Salvini e due visioni di democrazia

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Se i sondaggi sono credibili, la partita dell’Emilia-Romagna si giocherà su una manciata di voti, sì da risultare imprevedibile fino all’apertura delle urne. Qualcosa si capirà, qualche ora prima, dall’affluenza, certo destinata ad essere più alta di quella della volta scorsa, attestatasi su un miserevole 37 per cento. Secondo una regola non scritta, ma in qualche misura confortata dalla prassi, una partecipazione elevata, intorno od oltre il 50-60 per cento dovrebbe favorire la coalizione Lega/Fratelli d’Italia/Forza Italia. Di per sé, però, la eventuale maggioranza conquistata dalla sommatoria delle liste di “destra” non sarà sufficiente, perché in virtù del voto disgiunto fra liste e candidato, Bonaccini potrebbe ugualmente prevalere sulla Borgonzoni.

La nota dominante della campagna che si avvia a concludersi è stata quella di una conduzione ben diversificata, con il leader della “destra”, Salvini, ad affrontarla tutta in chiave nazionale, con a maggior eccezione il “caso Bibbiano”; e il candidato presidente della “sinistra”, Bonaccini, a gestirla tutta in chiave regionale. Una scelta quasi obbligata per entrambi, visto che Salvini non avrebbe comunque potuto opporre un candidato competitivo, capace di per sé solo di vincere il confronto con Bonaccini, forte di essere un presidente uscente di largo credito; e, a sua volta, Bonaccini non poteva far conto sulla credibilità del Pd, improvvisatosi alleato con un Movimento 5 Stelle, nemico implacabile fino al giorno prima, sì da dar vita ad un governo “del rinvio”.

La partita è aperta. Ma la mia impressione è che Bonaccini abbia fatto bene a puntare sulla ricaduta positiva della sua azione quinquennale, collocandola in una prospettiva di continuità; ma non senza un costo, quale dato dal dover ripetere sempre lo stesso spartito del “buon governo regionale”; questo senza tener conto di quel che via via era maturato e maturava a livello nazionale, anzi cercando in ogni modo di metterlo fuori campo, come se non esistesse. Così ha lasciato un grande spazio aperto a Salvini, perché il “buon governo regionale” conta fino ad un certo punto, sì da non essere decisivo, come da ultimo ben dimostrano le elezioni regionali del Piemonte perse da Chiamparino, sicuramente buon se non ottimo amministratore.

Il fatto è, come d’altronde messo in luce più volte, che le elezioni regionali sono più e meglio comparabili a quelle politiche nazionali che a quelle amministrative comunali. Non hanno nessuna prossimità fisica con la gente, a prescindere dal capoluogo regionale, dove c’è la sede della Regione, ma anche qui il Palazzo regionale la perde di gran lunga rispetto a quello comunale; non hanno nessuna visibilità continua, come succede al Governo e al Parlamento, oggetto di una martellante attenzione da parte dei mass media, e, in misura minore, come avviene per i sindaci e i Consigli comunali, ben presenti nelle cronache locali.

Soprattutto, però, l’attività regionale ha certo una ricaduta importante, ma largamente mediata da quella amministrativa sub-regionale, anche quando è fondamentale come nella sanità, dove sono in prima linea le Asl e i singoli ospedali. Sicché, giusto o sbagliato che sia, le Regioni acquistano una forte presenza mediatica proprio in occasione delle elezioni, ma allora tanto più, quanto più sono incerte le competizioni fra forze politiche nazionali su tematiche che dividono l’opinione pubblica dell’intero Paese. Se ne può avere una conferma dalla stessa esperienza dell’Emilia-Romagna, che, come detto, nelle elezioni precedenti, vide una partecipazione al di sotto del 40 per cento, proprio perché fu una partita giocata tutta in casa, con una conclusione del tutto scontata.

Come atout Bonaccini conta sulle “sardine”, che certo potrebbero favorire il ritorno al voto, se pur non per il Pd ma per la lista a suo nome, di quanti disillusi erano propensi a disertare il seggio; nonché il voto disgiunto di elettori dei 5 Stelle. Ma non è detto che l’impatto delle “sardine” sia a senso unico, cioè del tutto favorevole al presidente uscente. A prescindere da qualsiasi giudizio nei loro confronti, può giocare contro il fatto di essere “cittadini” del capoluogo regionale, come tali diversamente graditi al di fuori, cioè dal “contado” in senso largo; nonché lo stesso marcamento ad personam di Salvini, anticipandolo o seguendolo luogo per luogo, che finisce per esaltare ancor di più il ruolo del “Comandante”, come l’uomo solo da battere.

A sua volta, Salvini può far valere il suo status di “perseguitato”, consegnato dal Senato a quella giustizia ordinaria che, a ragione o a torto, ha condannato all’esilio Craxi (dall’Italia) e Berlusconi (dal Senato). Ma non è chiaro se questo status avrà fortuna contro un giustizialismo ormai diffuso nell’opinione pubblica, sempre alla ricerca di un capro espiatorio, ottimo bersaglio delle frustrazioni pubbliche e private.

Se si prescinde da ciò che appare in superficie, quello in corso dall’avvento della Seconda Repubblica è un disconoscimento di quanto, in ragione dello stesso sistema elettorale maggioritario, avrebbe dovuto costituirne il comun denominatore, cioè il reciproco riconoscimento di legittimità costituzionale da entrambe le parti in causa, centrodestra e centrosinistra. Il che non è avvenuto per una sorta di corresponsabilità, peraltro attribuibile in misura maggiore proprio al centrosinistra, con a regista quel Pds prima e Pd poi, che, avendo sofferto come Pci la conventio ad escludendum, l’ha ritorta, ieri, contro Berlusconi e, oggi, contro Salvini. E ciò facendo leva su un passato ricostruito ad usum Delphini, con il Pci erede unico ed esclusivo di un movimento partigiano che avrebbe liberato l’Italia, con buona pace delle decine di migliaia di morti delle truppe alleate, ospitati in cimiteri lasciati deserti ogni 25 aprile. Per, poi, ravvisare nella parte avversa, solo qualcosa che prelude al fascismo, sia in Forza Italia sia nella Lega, con da ultimo un dispiegamento di tutto quel che vi confluirebbe, antisemitismo, razzismo, misoginia, omofobia, insomma il male assoluto.

Il che costituisce un vizio di fondo del Pd, perché favorisce un riflusso in senso contrario, risuscitando in un Paese “vecchio” una visione del comunismo, che si vorrebbe sepolta, cioè di partito fortemente ideologico, anti-patriottico, antagonista, classista. Se si combatte per immagini, ogni immagine rilancia quella contraria, così che la visione finale è quella di una democrazia incompleta o addirittura ammalata, priva della sua garanzia fondamentale, cioè dell’esistenza di una opposizione costituzionale.

A guardar bene la contesa non è fra democrazia sì e democrazia no, bensì fra due visioni della democrazia, che accentuano fino a renderle esclusive le componenti dell’art. 1, co. 1 della Costituzione: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Esaltata dall’attuale congiuntura di una coalizione Lega/Fratelli d’Italia/Forza Italia maggioritaria nel Paese e di una alleanza 5Stelle/Pd/Italia Viva/Leu maggioritaria in Parlamento. La prima coalizione valorizza “La sovranità appartiene al popolo”, la seconda alleanza “che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Se, come fa la “destra”, si parte dalla “sovranità” del popolo, allora “le forme e i limiti” dell’esercizio vanno interpretati di conseguenza, per cui c’è la centralità della cittadinanza strettamente correlata all’idea di nazione, con in vista una società mono-culturale, dove ci si integra condividendone l’identità; la prevalenza di una legge maggioritaria, tale da tradurre immediatamente la volontà popolare in una formula di Governo; la difesa del legislativo e dell’esecutivo dall’invadenza della magistratura; la contrarietà all’attività debordante delle Procure; la valorizzazione dei referendum. Se, come fa la “sinistra”, si procede dalle “forme e i limiti”, allora la “sovranità” va interpretata in coerenza, per cui c’è disconnessione della cittadinanza dall’idea di nazione, con in prospettiva una società multiculturale, dove ci si integra portandovi la propria identità; la preferenza per una legge proporzionale, tale da rimettere a una coalizione formatasi in Parlamento, se pur contrapposta ed eterogenea, la formazione del Governo; la esposizione del legislativo e dell’esecutivo alla interferenza della giustizia ordinaria; la simpatia a priori per i magistrati dell’accusa; la smitizzazione dei referendum.

A dire il vero, questa contrapposizione non rende giustizia ai 5 Stelle, che, per così dire, stanno nel mezzo, divisi fra l’essere dell’origine, a misura di una contrapposizione frontale col sistema, di cui si individuava il perno proprio nel Pd; e il divenire in prosieguo, forza maggioritaria prima del Governo giallo verde, poi di quello giallo-rosso, sì da riconciliarsi, sia pur non senza strappi interni, con lo stesso sistema.

Che dire ora? Non v’è dubbio che lo stacco si è accentuato, sì da rendere pienamente percepibile il divario “fra sovranità” del popolo e “forme e limiti” dell’esercizio. Senza scendere ad un esame del merito, si deve tener conto dell’impatto cumulativo sull’opinione pubblica della scelta della Corte costituzionale di bocciare il referendum sulla modifica maggioritaria del Rosatellum, aprendo la via ad una legge proporzionale; la decisione di 5Stelle-Pd-Italia Viva-Leu, di pronunciarsi a favore dell’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini, largamente preannunciata a carte ancora coperte, sì da rendere patetica la melina per non votare nella Giunta delle immunità prima delle elezioni regionali di Emilia-Romagna e Calabria; la pronuncia della Cassazione, che considera non legittimo l’arresto di Carola Rackete, non per nulla elevata a eroina della battaglia contro i “porti chiusi”; la entrata in vigore della legge blocca-prescrizione, che a tutt’oggi significa un processo potenzialmente senza fine.

Tutto questo, ed altro, dà l’impressione di una reazione oggettiva, se pur non necessariamente soggettiva, del sistema istituzionale a contrasto di una “destra”, nella persona del suo leader, che la sequenza di elezioni regionali e i sondaggi testimoniano essere in netta prevalenza nel Paese. Può essere che parli solo alla “pancia”, ma questa è una parte del corpo di non poca importanza, tanto da aver avuto peso nella stessa democrazia ateniese; poi, a chi toccherebbe, giudicare se quella confortata da una maggioranza della gente sia di “pancia” o di “cervello”?